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Alessandro Canzian

Rita Vitali Rosati

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Alessandro Canzian

Ammazzare il tempo: con quali armi?

Ammazzare il tempo implica in qualche modo una necessità di ammazzarlo che non condivido completamente. Senza arrivare ad appellarsi al concetto di otium direi che il tempo è un qualcosa che inevitabilmente esiste a prescindere da noi, e con il quale dobbiamo altrettanto inevitabilmente fare i conti. La storia recente ci ha inoltre mostrato due differenti approcci a questo tempo: il tempo vuoto, espanso, e il tempo che non basta.
Il tempo vuoto, espanso, è quello che ha riproposto il concetto di noia (il medesimo di cui ci avvertiva Pascal) con le conseguenze degli ultimi anni soprattutto sulla fascia più giovane della popolazione. Con tentativi di ammazzare il tempo spesso aberranti. Mentre il tempo che non basta è quello dell’accelerazione disumana dei processi che porta all’accelerazione dell’essere umano stesso. Tutto deve cambiare in fretta, rinnovarsi nonostante Bauman ci avverta che così finiamo col considerare e considerarci alla stregua di un prodotto da supermercato nel quale è già insito il desiderio di buttare via. E questo è successo. Le relazioni umane sono diventate incontri rapidissimi e abbandoni altrettanto rapidi. Col risultato di acuire il senso di solitudine e disagio.
Alla fine potremmo dire che il nostro periodo storico è contrassegnato dall’incapacità di gestire il tempo. Siamo come adolescenti che prendono per la prima volta in mano un motorino ma non lo sanno guidare, e cadiamo. E continuiamo a cadere e a farci male e continuiamo a salire sul motorino senza però avere imparato nulla dalla caduta. Perché in effetti il cortocircuito che il nostro rapporto col tempo oggi rappresenta mostra un nostro enorme difetto: siamo incapaci di imparare.
Non solo non abbiamo più una memoria storica, ma nemmeno una memoria a breve termine. Basti pensare a una politica italiana dove il rappresentante di turno viene coinvolto in uno scandalo, viene condannato e poi dopo tre mesi è già sull’onda come nulla fosse successo. O personaggi istituzionali che dopo essere stati riconosciuti colpevoli di crimini e/o atteggiamenti esecrabili eccoli assumere posizioni dirigenziali.
Ma noi ce la prendiamo con la maestrina sciocca che perde la testa e urla frasi senza senso. Perché questo è il nostro modo di ammazzare il tempo: trovare qualcosa che è peggio di noi e ci faccia sentire migliori. Senza doverlo essere.
Ho letto alcune settimane fa un’intervista che comparava i programmi degli anni ’80 a quelli odierni, leggi L’isola dei famosi. La riflessione conclusiva era che negli anni ’80 i vari Mike Buongiorno ti portavano all’identificazione con il concorrente di turno. Oggi i Reality Show ti portano al giudizio ovviamente tutto a tuo favore. E tu stai meglio perché vedi che c’è qualcuno peggiore di te.
De André cantava si sa che la gente dà buoni consigli se non può dare il cattivo esempio, ed è assolutamente vero. E anche questo è il nostro ammazzare il tempo: non avere più la possibilità di dare il cattivo esempio perché ormai consideriamo normale qualunque cosa. Non c’è più una grata di riferimento, un metro di misura a cui appellarsi.
In tutto questo io credo il poeta non debba ammazzare il tempo ma segnarlo, inciderlo. Caratteristica fondante della parola è il suo essere definitiva, il suo poter percorrere i tempi. E non è solo appannaggio della parola scritta in quanto anche quand’era orale veniva trasmessa ugualmente, la sua vita oltrepassava quella dei singoli uomini. Il poeta cioè non ammazza il tempo, lo testimonia. Quando è un grande poeta arriva addirittura a suggerirgli una nuova direzione.
Per quanto riguarda me io non lo ammazzo e non ho strumenti per farlo. Lo uso, uso un tempo che credo mi sia stato concesso (senza identificare un qualcuno che lo concede) per cercare di fare qualcosa di buono e utile per questo mondo. Sia dal punto di vista dell’Editore che dell’Autore.

Da qui all’eternità: è un lungo viaggio, in quale stazione fermarsi?

Il tempo, e specificatamente il tempo della vita, è fatto di moltissime stazioni. A volte programmate, a volte inaspettate o indesiderate. Non credo importi molto dove ci si ferma perché ad oggi ho imparato una cosa che in fondo già avevo letto in Flaubert: ogni uomo ha la sua croce. Tutti prima o poi ci fermiamo in tutte le stazioni. Ad oggi non credo esista uomo a cui è concesso di saltarne alcune. Certo non tutte sono evidenti, alcuni sanno nascondere bene le tappe, ma il percorso è quello e tocca a tutti. Nel bene e nel male.
Quello che possiamo fare è osservare la stazione. Cercare di capirne il più possibile, di fare tesoro dell’esperienza. Senza giudicarla. Senza giudicarsi, almeno non troppo. Gli antichi greci avevano capito una cosa che noi tendiamo molto a dimenticare: l’uomo è umano. L’uomo del nostro periodo non è più un essere umano ma un prodotto manipolabile (basti pensare alle propagande mediatiche quanto alle pubblicità quanto alla semplice disposizione dei prodotti nei supermercati, tutto è diventato una manipolazione dei nostri processi mentali a fini commerciali). Un prodotto che deve corrispondere a determinate caratteristiche accettate da un finto senso comune che in realtà è una struttura di regole veramente poco applicabili all’umano, e che finiscono col produrre gli orrori che dichiarano di voler evitare.
La stazione dimenticata di oggi è l’essere umano nella sua interezza. Che è fatta di amore quanto di odio, rabbia, violenza, gelosia, di bontà quanto di ferocia nella medesima misura in cui il Dio veterotestamentale era amorevole e geloso. Era protettore e distruttore di uomini. I greci l’avevano capito e ci hanno regalato un’intera letteratura sul tema. Noi lo abbiamo dimenticato relegando determinate caratteristiche a inopportune, inappropriate. E non certo per motivi morali, etici, o di pulizia o progresso intellettuale. Fromm in questo ci mostra quanto tutto sia rapportabile all’essere utili alla società, che oggi non abbiamo più paura di identificare con il mercato. Nella medesima maniera in cui è accettata la sigaretta perché non preclude un’immediata inabilità al lavoro (il cancro arriva dopo anni) così oggi abbiamo relegato determinate caratteristiche umane a poco produttive per cui errate, da sopprimere. Salvo ritirarle fuori quando serve (ad esempio per motivi politici).
I poeti in questo, oltre ad avere l’obbligo di testimoniare la realtà, dovrebbero secondo me anche cercare questa stazione dimenticata ed esplorarla, definirne meglio i bordi, i confini, apprenderla, coglierne il dato positivo che deriva dal confronto, dalla conoscenza.
E quello che invece io amo fare è di individuare le stazioni dimenticate delle persone che incontro. Perché sono queste che dicono di più di loro, e insegnano di più. Capire le stazioni dimenticate aiuta non solo a godere di più delle nostre stesse altre stazioni, ma anche ad aiutare gli altri ad affrontarle.

Scrive Montale: …..L’attesa è lunga, il mio sogno di te non è finito. Ma i sogni finiscono? O si interrompono?

Innanzitutto bisognerebbe definire il termine sogno. Dal linguaggio non si scappa, e il linguaggio ci serve per capire di cosa realmente stiamo parlando.
Anche restando all’interno dell’accezione montaliana dobbiamo comunque, nell’opera di ricollocamento che questa domanda implica, considerare due opzioni: sogno come aspirazione concreta, fattibile, come esperienza vissuta e che si vorrebbe e che può continuare, o sogno come non-luogo temporale dove restiamo, per un determinato periodo di tempo che è connotato dalla sua impossibilità d’essere continuo, fuori dalla realtà?
Questa differenza è fondamentale in quanto ci mette davanti la responsabilità che il nostro capire rappresenta. Il mio sogno è fattibile? O il mio sogno è un momento, una parentesi, che non potrà continuare? Tali domande, in riferimento alla seconda data dall’intervistatrice, conducono a un’ulteriore questione: se il sogno finisce è perché doveva necessariamente finire oppure ho fatto io qualcosa per farlo finire? O non ho fatto qualcosa per farlo continuare? E potremmo addirittura continuare il percorso domandandoci se, a fronte della fine del sogno, l’ho fatto finire volontariamente o involontariamente, e se la sua conclusione alla fin fine è stata una cosa positiva o negativa.
Perché non tutti i sogni sono positivi. Non tutti i sogni sono realizzabili. In questo la poesia del Novecento ci ha mostrato grandissimi esempi di concretezza, di realtà. I poeti di oggi, dopo aver demolito i sogni, stanno indicandone la necessità legata al loro essere parte costituente e fondamentale dell’essere umano. Ma sono sogni veri, reali, necessità imprescindibili della persona.
Per cui si, i sogni finiscono. Ed è bene che finiscano perché sono i quarant’anni nel deserto a insegnare la via di casa, non lo stare nell’oasi. Finiscono così come sono stati necessari, come il periodo mondano di Siddharta.
Per tornare ai versi montaliani, e fornire un’opinione più personale, devo considerare la visione del poeta ligure e questo accenno, questa ipotesi, di donna salvifica che emerge dal testo. Lei è il sogno, lei è se dormendo mi credo ai tuoi piedi. La domanda che mi pongo però è la seguente: esiste una donna del genere? O è solo una bella invenzione dei poeti? La mia risposta non può che essere negativa, e il sogno una cosa che è bene finisca. Come tutte le illusioni.

Sarei inarrestabile se solo riuscissi a incominciare: quali pronostici per il quando?

Questa è una bella frase che rischia d’essere una bella bugia. A un vecchio appuntamento di Callisto (il ciclo di incontri poetici che dirigo con Federico Rossignoli a Palazzo Grimani a Venezia) parlando di eros era venuto fuori che i poeti scrivono di eros quando non possono farlo, e che chi invece ha un’attività intima non ne scrive.
Questo, a parte il fatto che non è considerabile come regola esistenziale, è sicuramente un’ottima indicazione per misurare anche la domanda posta. Chi afferma la frase di cui sopra non ha evidentemente iniziato, e la domanda diventa: perché? Questa frase non rischia d’essere una giustificazione?
Inoltre consideriamo un altro elemento: sarei inarrestabile. Io a questa persona chiederei: perché ne sei così sicuro? Non sai cosa succederebbe, non sai se le tue forze reggerebbero. Stai ipotizzando un qualcosa che non hai ancora fatto.
È vero che nella vita spesso ci sono cose che ci bloccano, ci ostacolano, ma non devono giustificare un non iniziare in qualche modo. Personalmente invece non posso dire quando inizierò perché ho già iniziato, ma posso rivolgere la domanda in altri termini: se solo potessi fare meglio grazie a diverse condizioni.
Tornando ai poeti, tema a me caro, la domanda posta è molto pericolosa perché porta la mente dell’autore in un campo a lui affine, quello dell’immaginazione. Ma l’immaginazione non deve diventare illusione ma visione. E la differenza tra illusione e visione è appunto la volontà e la capacità di concretizzare quanto si vuole fare.

ieri, oggi, domani: un labirinto dove perdersi o ritrovarsi?

Direi dove ritrovarsi. Ieri è ciò che abbiamo come esperienza, in cui troviamo insegnamento. Oggi è l’occasione che abbiamo di agire, di essere. Domani è la prospettiva che si lega alla visione. Apparentemente è un labirinto, in realtà è un percorso a senso unico (sempre avanti) che è molto attorcigliato in se stesso. In questa prospettiva anche quando torniamo indietro, o ci sembra di tornare indietro, in realtà stiamo comunque procedendo avanti nella strada.
Il punto di riferimento, forse addirittura l’unità di misura, non può che essere l’oggi. Oggi esistiamo in relazione a ciò che abbiamo vissuto ieri e in relazione a dove vogliamo andare domani. Per quanto riguarda i poeti è sostanzialmente la medesima cosa. Eliot ci insegna che un buon poeta deve tenere ben presente la tradizione, altrimenti non è poeta. Noi sappiamo che dobbiamo vivere e scrivere dell’oggi interrogandoci anche sul domani. Perché gli scritti verranno letti anche domani. E alcuni, i migliori, porteranno addirittura al domani.

Che cosa fischietti a tempo perso?

Posto che non so fischiare, direi che canticchio musichette ascoltate man mano alla radio. Possibilmente heavy metal. Solo come attività di rilassamento dal lavoro.

Un giornalista ha chiesto in una intervista a John Lennon: prevedi un tempo in cui andrai in pensione? Le leggende non vanno mai in pensione, o no?

Forse parlare di leggende è un po’ troppo, perché come per i poeti devono essere definite dagli altri e dopo. Io credo che chi fa quello che è portato a fare, e lo fa bene, finisce per totalizzare il suo tempo in quella direzione. E non c’è una pensione possibile. Non esiste una data di termine.
Può capitare che si esaurisca la vena artistica per periodi più o meno lunghi, o per sempre, ma un vero e proprio concetto di pensione non è possibile.
Il poeta osserva, capisce, testimonia, descrive, racconta. E questo finisce solo con la fine del poeta.

Ogni sabato del villaggio allude a delle aspettative: quali sono le tue, quelle che reputi migliori?

Le mie aspettative al momento sono molto ridotte. Ieri pensavamo a un mondo nel quale dovevi studiare, comprarti casa, trovare un lavoro fisso e sposarti. Oggi viviamo in uno stato di precariato che ha coinvolto ogni sfera del vivere. Siamo precari nel lavoro, nelle relazioni sociali, nelle relazioni sentimentali. E alcuni oggi stanno addirittura chiedendosi quale sia lo stato che possiamo considerare naturale. Perché la sicurezza e l’opulenza sono state un’anomalia a dirla tutta molto breve.
Per cui le mie aspettative recenti sono molto brevi. Arrivare a domani, al mese dopo. Cercare di fare qualcosa di buono attraverso il mio lavoro. Poi ovviamente non posso negare che, nel lungo termine, vorrei che il mio Condominio S.I.M. (la mia opera di poesia inedita) venisse letto e lasciasse un segno nella cultura. Chissà.

Nell’Eclipse dei Pink Floyd, il testo it’s all dark non prevede l’attesa di un’alba, di un lato illuminato della luna. È solo un’illusione?

La vita si muove per rotazioni. Noi andiamo avanti, inevitabilmente, per la nostra strada, ma Nietzsche nel lago di Silvaplana si rese conto che c’è un punto a cui sempre ritorniamo. Con tutte le conseguenze filosofiche del caso.
Noi viviamo in un tempo in cui abbiamo capito che la luce è composta sia di particelle sia di onde, e che la particella è anche onda e l’onda è anche particella, per cui non ci sembra più tanto strano comprendere in una medesima definizione il concetto lineare del tempo e il concetto dell’eterno ritorno. Semplicemente siamo come ruote di un’auto. La ruota ciclicamente tocca terra, continuamente, senza altra possibilità se non quella di tornare a toccare terra. Allo stesso modo però l’intera struttura va avanti, la ruota nel suo complesso procede per la sua strada.
Con questo voglio dire che la vita ha le sue illuminazioni e i suoi momenti oscuri e trovo riduttivo pensare che ci sia solo il lato oscuro. D’altronde perfino la metafora della luna non esclude il lato illuminato, anzi il lato oscuro esiste proprio in virtù del lato illuminato e viceversa.
Quando ero ragazzino mi raccontavano spesso la storia di Bertoldo. Il quale piangeva quando c’era il sole e rideva quando c’era la pioggia. Questo perché sapeva che dopo il sole sarebbe sopravvenuta la pioggia e viceversa. E questa è una grande verità della vita.
Alla presentazione di una delle mie primissime uscite editoriali, parliamo del 2001/2002, ricordo che la persona che doveva dire del libro (Ludovica Cantarutti) espresse un concetto tanto semplice quanto profondo per redarguirmi (tra l’altro pubblicamente) dal tema della solitudine che devo ammettere ancor oggi esploro. Ludovica disse più o meno così: la solitudine è come un vaso, tu lo guardi e ti sembra vuoto, poi quando passa il tempo e lo guardi/riesci a guardarlo meglio ecco che ti accorgi esserci nel fondo un poco d’acqua, poi un capello, e via dicendo.
Questa metafora mi torna utile oggi per parlare dell’oscurità. L’oscurità ha la luce dentro, solo non siamo in grado di vederla (Ungaretti docet in questo). Ci vuole tempo, esperienza, pazienza, per vedere che anche nel lato oscuro della luna esistono bagliori, presenze.
Tornando ai poeti, io credo che il mostrare e il dimostrare questo sia un altro loro grande dovere. Il dovere di evidenziare la complessità del reale senza facili banalizzazioni o semplificazioni, il dovere di indicare la possibilità di accettazione, di pacificazione, con il reale. Anche di fronte alla noia, al disagio, alla solitudine, di cui abbiamo parlato in questa intervista.
E venendo in conclusione a me considero sia anche un mio dovere il cercare di ricordarmi e di mostrare agli altri che esiste quel bagliore nel buio, basta affilare/abituare gli occhi. O che comunque c’è sempre e necessariamente l’altro lato della luna. Altrimenti non vedremmo nemmeno il buio di questo lato in questo momento.

Ti ringrazio caramente per quest’intervista.

Alessandro Canzian

Tags: Alessandro Canzian

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