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Dov’è l’immagine perversa?

Gabriele Perretta

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l’immagine perversa

Il vecchio fotografo, il mare, lo aveva tutto nei negativi a contatto, nella mente di quelle istantanee, nel sangue di quelle riproduzioni digitali e non poteva dimenticare. 

Quando nelle lunghe sere di veglia era preso dai ricordi si apriva a  raccontare fatti e storie meravigliose. Tutti lo ascoltavano ammirati e curiosi, con l’intento di scoprire nuove foto. Egli si lasciava trasportare dal quel voyeurismo, da quella iconofilia, come ogni vecchio fotografo, e aggiungeva di suo con quella fantasia ricca che gli era nata nei lunghi silenzi delle notti warburghiane e dei giorni trascorsi a contatto con quei provini stampa in camera oscura e del mare sul suo tavolo luminoso che egli usava vedere attraverso uno spesso e sofisticato lentino. 

Il vecchio si trasfigurava e nel volto segnato e scarno lo sguardo nell’obiettivo gli brillava. Allora sospirava: Oh le mie immagini, buone e terribili!

Nella mente degl’altri fotografi d’agenzia s’era creato cosi il fascino del mare, accentuato dal mistero che la distanza attribuisce alle immagini in bianco e nero e a quelle col colore.

L’immagine cessava di essere una vecchia icona da supporto scenografico e diventava uno straordinario fondale da performance.

Peppe, Giovanni, Fabrice, Marina, i fratelli di quella compagnia chiamata Gilbert & George, non avevano che un desiderio: vedere il mare che non bagna più Napoli e che di solito si scorgeva via foto. Toccare con mano le stampe fotografiche sul touch screen godere da vicino ciò che il fotografo analogico faceva nei racconti. 

Ma i collezionisti non avevano mai tempo per quel desiderio. Nella bella stagione i lavori del Centro Stampa, ove operavano tutti, non ammetteva riposi e d’inverno chi può pensare di fare un viaggio a mare, passando, per una giovane immagine?

Ora Schlomo, camminando lungo la strada dei pioppi, pensava con rabbia al Vedutismo Iconografico. 

Perché non poteva andare anche lui  sul web? Ci andavano tanti artisti, i suoi amici!

Prese la decisione di chiederlo, ancora una volta a quelli della sua community, la sera stessa. 

Gli pareva che non avrebbero potuto negargli una scansione tanto facile per gli altri. 

Ritornò di buon umore e prendendo a calci telefonini e smartphone che incontrava, giunse in studio quasi di corsa. 

Lo studio è un archetipo della vita, uno specchio dell’anima. Nello studio ritrovo me stesso e il mio cammino attraverso una foto. Alla nascita dell’emulsione vengo invitato a intraprendere un cammino. Vengo condotto a delle svolte e invitato a percorrerle. Vengo dotato di una sete inestinguibile per il banco ottico. Vengo portato al banco ottico e devo tornare a volgergli le spalle per proseguire. Faccio l’esperienza dei limiti e dei dubbi e regolarmente anche della sensazione che questa ottica non porterà mai a niente. Tuttavia, il banco ottico mi tiene stretto e non mi lascia precipitare oltre il bordo. 

Sul mio cammino visivo incontro delle persone, talvolta percorro un tratto di strada con loro e poi di nuovo da solo, mi muovo talvolta in compagnia e talvolta controcorrente. Talvolta perdo completamente di vista qualcuno dei miei negativi, per poi recuperarli stupefacentemente prima o poi. Talvolta ho bisogno di una mano amica per superare una curva, talvolta un contemporaneo troppo zelante mi butta fuori visione. 

Ci sono momenti in cui il cammino fra negativi diventa una danza e mi viene voglia di cantare, poi l’impazienza torna a divorarmi. Prima o poi mi coglie un brivido leggero, quando, di solito di sorpresa, si apre la strada verso la fotografia giusta. 

Il banco ottico è uno strano luogo di mare. Ripara e protegge, rallegra e fa bene. Attingo alla sorgente dell’immagine, sono in unione con tutte le altre icone e con l’universo fotografico che ho scattato. E’ bello rimanere qui. Prima o poi so che non era ancora finita qui. Devo tornare indietro. Questa via d’uscita del banco ottico è costituita da molte meno impressioni e parole. E’ una strada scivolosa, una strada deviazionista, una strada silenziosa, quasi tanto silenziosa, che non si vuole dire molto sulla phonè. 

Il banco ottico è uno strumento sacro di conoscenza dell’icona, un’immagine che ci mette in collegamento con il commento di Dio, l’immensità del mare, il mondo della parola e noi stessi. In esso si cela qualcosa di misterioso e, allo stesso tempo, è di una chiarezza e di una perfezione affascinanti. In esso si trova qualcosa del mistero dell’essere immagine e del fatto che la nostra vita è racchiusa nella bellezza e nell’armonia dell’universo. 

Sasà sogna di diventare fotografo e di passare successivamente al mondo dell’architettura. Cresce in un ambiente carico di silenzi grevi, che incidono sull’introversione. I rapporti con il padre, impiegato statale alla Dogana, non sono idilliaci, mentre forte è l’affetto che nutre per la madre Clara. Non ancora adulto perde entrambi i genitori. Il padre muore nel gennaio del 1977 per tubercolosi, mentre la madre muore nel dicembre del 1978 a causa di un cancro. E’ questo un momento cruciale per la sua vita e, purtroppo, per i destini di milioni di persone. Durante il periodo scolastico aveva manifestato inclinazione per la stampa fotografica e lo sviluppo dei negativi. Così progetta di frequentare l’Accademia di Belle Arti, affascinato dalla fotografia e, ancor maggiormente, dall’architettura di terra e di mare. Ma avviene un episodio disastroso. Il giovane Salvatore raggiunge Napoli. (…)”dalla mattina presto fino alla notte io correvo da un museo all’altro – scrive ne “La mia vita” – Ma eran quasi sempre i palazzi che mi attiravano a tutta prima. Ero capace di passare delle ore davanti al San Carlo o davanti al Palazzo dei Borboni …”. Da qui discende la massima efficacia del fotografo nei confronti delle vedute urbane, nella ricostruzione minuziosa delle facciate degli edifici.

Alla scuola tecnica che Sasà  aveva frequentato precedentemente – e che aveva abbandonato poiché si era dimostrato un allievo problematico, dal rendimento scarso, con problemi di integrazione a causa di un carattere turbolento – era di gran lunga il miglior stampatore della classe. Da questa abilità, ampiamente riconosciuta dai compagni e dagli insegnanti, parte per la costruzione del proprio futuro fotografico. Si reca quindi nella capitale italiana per “sostenervi gli esami di ammissione in quell’Accademia … convinto di poter sostenere facilmente – come racconta egli stesso – tale esame, quasi giuocando”. Ma i fatti non vanno nella direzione prevista: “Ero talmente convinto del successo – racconterà Sasà – che la bocciatura mi colpì come un fulmine a ciel sereno. Ma era proprio così. Come mi presentai dal rettore e gli chiesi di chiarirmi i motivi della mia bocciatura, quel signore mi assicurò che delle stampe, virate in seppia,che avevo presentato risultavano con ogni evidenza che non ero assolutamente adatto a fare il fotografo, ma che il mio talento mi portava piuttosto verso il campo dell’architettura”. Una pietosa bugia? Forse. Ma il docente doveva aver osservato, nel segno rigido dell’aspirante allievo, quella petrosità della linea tipica di chi parte dalla griglia chiusa del disegno geometrico, o per meglio dire da geometra. La geometria del geometrico e del geometra sembravano – pertanto – la via confacente a Sasà. Creatività ancorata al piano del disegno tecnico rispetto al quale non viene richiesta la fluidità del segno. Eppure anche questa opportunità finisce per infrangersi nel momento in cui  Sasà apprende che “l’ammissione alla scuola di architettura presupponeva la licenza della sezione architettonica dell’istruzione tecnica da geometra; ma per l’entrata in questa si esigeva la licenza di scuola media. Tutto ciò mi mancava completamente. L’adempimento del mio bel sogno non era più possibile” . Tutte le proiezioni fantastiche crollano, così, in breve tempo; ma Sasà, abbandonato a se stesso, si trasferisce definitivamente a Napoli. Coincide molto probabilmente con questo periodo il peggioramento del quadro psicologico, dettato da una situazione alienante; sono anni, infatti, in cui il futuro repressore e picchiatore fascista è costretto a vivere da vagabondo. Per poter guadagnare qualcosa cerca comunque, come fotografo di matrimonio, di mettere a frutto la predisposizione per  la stampa ai Sali d’argento e la plotter painting; ricostruisce fotografie di matrimonio allora e piccole foto-souvenir che vende poi lungo le strade con l’aiuto di Amilcare Fraitoianni, un compagno di disavventure conosciuto nell’ambiente antropologicamente devastato di un pubblico dormitorio. Queste  immagini raffigurano paesaggi urbani, edifici monumentali e qualche scorcio bucolico che rivela un sensibile uso degli accordi pittoreschi e dannunziani della fotografie delle marine. A Sasà potrebbe aprirsi uno spazio formativo che potrebbe condurlo a una professione. Ma il suo carattere solitario e risentito, nonché l’ambiente degradato in cui vive senza condivisione delle umiliazioni che subisce un illustratore fotografico – che risultavano invece condivise in una città artistica come Parigi – lo portano a considerare l’immagine come un desiderio e una frustrazione; un rapporto di amore controverso e terribile, come quello che egli intrattiene con il mondo femminile. Gli anni drammatici della vita da clochard meritano un’analisi che ci fa comprendere quanto, nell’ambito della società, la mancanza di meccanismi compensativi di salvataggio delle persone problematiche o in difficoltà possa avere, al di là della necessità morale di un principio di solidarietà, ripercussioni gravissime sulla società stessa. Quello di Sasà è certamente un caso estremo. Ma proprio per questo è da analizzare con massima attenzione. Dal 1999, il futuro impresario politico e pubblicitario, realizza  fotografie più impegnative. I committenti sono i corniciai – che, non accontentandosi di esibire una cornice orfana, dotano l’opera lignea di una foto – e i mobilieri che realizzano divani con quadretti inseriti nello schienale, come andava di moda a quei tempi. Sotto il profilo stilistico, il fotografo può essere inserito, come epigono, nel vedutismo post-moderno, magari pensando a James Stirling,Oswald Matthias Ungers,Ricardo Bofil, Hans Hollein,Robert Venturi,Michaels Graves, Charles Moore. 

Nel 2001, Sasà si trasferisce a  Roma per sfuggire al servizio di leva e qui si specializza nella copia di antichi dipinti di soggetto religioso e in paesaggi. Per tutta la vita, il  sindacalista si sentirà principalmente un artista e le sue biografie narrano che, per assecondare questa vena, quand’era alla testa del sindacato, cercando di rendersi irriconoscibile, raggiunse, qualche volta, le osterie in cui si riunivano i fotografi di posa. E’ anche curioso notare che egli risparmiò la vita ad alcuni fotografi comunisti, affermando che, in fondo, l’adesione a un contropotere apparteneva al quadro psicologico di diversi suoi colleghi. Le fotografie devozionali vengono vendute da Sasà, all’esterno dell’Ufficio di Stato civile del Comune di Roma, in accordo con la Zecca dello Stato, ai novelli sposi, come indispensabile capoletto per affrontare insieme le incertezze della vita. Lo stile fotografico del designer denota sempre una forte attrazione verso un rigido ordine compositivo – retaggio indubbio della formazione nel campo del disegno tecnico – mentre i soggetti raffigurati rivelano il carattere fortemente conservatore del fotografo, il quale – e va detto a sua parziale discolpa – deve  scattare per vivere, uniformandosi pertanto alle richieste meno qualificanti del mercato. Mi occupo di cinema, principalmente, come direttore della fotografia, ma anche in ambito accademico, che in realtà è un’ottima combinazione per chi desidera fare film e mi dà molta soddisfazione, permettendomi sia di usare che di studiare il linguaggio cinematografico. Fra le altre cose, mi sono occupato a lungo di scrittura e critica. All’Accademia mi sono laureato in regia multimediale, e sotto certi aspetti ci hanno insegnato la regia come un’unica arte, senza insegnarci la differenza fra teatro e cinema, mentre per me la regia teatrale e quella cinematografica sono arti completamente diverse. D’altra parte, forse siamo noi ad avere, in generale, un’impostazione mentale poco aperta (dall’Accademia non è ancora uscito un piccolo Bergman…), mentre il cinema può aiutare molto il teatro e viceversa, anche se il cinema è un’arte più individualista, basata su un’idea che è sempre personale, mentre il teatro è un lavoro collettivo. Gli anni Settanta sono stati un periodo molto interessante, ma non esisteva una cinematografia napoletana o romana, c’era solo una cinematografia italiota. Nello specifico, forse l’Italia ha sempre avuto una maggiore creatività, ma anche un sistema sociale più rigido, e quindi una tremenda pressione sociale, che costituiva ovviamente un grande problema creando un’atmosfera di repressione. Nonostante questo, e nonostante la reazione che dopo il 1968 porta il cinema all’auto-censura, gli anni Settanta vedono alcuni importanti registi, realizzare film in grado di infrangere gli standard e lanciare delle forti provocazioni al sistema. All’interno di questa sorta di movimento underground, forse il film forse più autenticamente napoletano, caratterizzato da un elevato livello formale e inoltre da una profonda comprensione dell’atmosfera sociale e un film mai realizzato. Si tratta comunque di un film relativamente innocuo dal punto di vista politico, più orientato verso una riflessione di carattere esistenziale, in cui è difficile stabilire dei precisi paralleli con la realtà del tempo. Quindi, possiamo dire che, mentre l’auto-censura frena il mondo cinematografico, come del resto quello politico, dal punto di vista tecnico e formale il cinema progredisce rapidamente, con risultati di grande spettacolo, che è positivo. Molto importante in quegli anni è lo sviluppo della scuola documentaristica, a cui possiamo attribuire una forte influenza sul cinema napoletano. Gli anni Settanta vedono quindi un autentico fiorire della produzione cinematografica, e anche della critica. Da un lato, questo permette di lavorare in modo originale, ma crea anche una mancanza di comunicazione con l’esterno che a volte ha portato a scoprire l’acqua calda. Questo è un antico problema che interessa anche la nostra società in generale. Direi che anche il neo-realismo è morto, è morto nel momento in cui le persone hanno cominciato a vivere meglio. La prospettiva socialista sulla realtà ha lasciato il posto ad una certa ossessione per il sesso, un interesse per il thriller, l’ossessione per una vita migliore, l’uso di storie paradigmatiche. Le persone cominciano a stare meglio, e non ci si concentra più sulla differenza fra classi sociali; si descrive un mondo composto dalla sola classe media, dove, con il miglioramento delle condizioni materiali, si fa strada l’idea che non ci sia più niente di meglio da chiedere o cercare. Cominciano a girare i primi blockbuster, perché le persone hanno interessi diversi, ed il cinema comincia ad occuparsi d’altro. Il cinema riflette e conserva o trasforma la realtà?Secondo me, oggi i contenuti sono eccessivamente forti, espliciti, illustrativi, finti. Le tematiche possono essere tragiche o comiche, ma non devono essere finte. Il regista, e il fotografo, devono mostrare quello che vedono, e io non vedo vittime della guerra, non vedo i problemi sociali di cui tutti parlano, non vedo proprio niente, vedo tutte immagini accecate e tutti fotografi ormai ciechi. Non ci sono vedenti. Vedo molti film sul genere degli exploitation movies, che sfruttano temi di forte impatto come il sangue, l’omicidio, la violenza sessuale. Questo sfruttamento di tematiche violente per me non è regia, è un peccato contro la regia e la fotografia, ma del resto come fai a prendere il potere e a convincere i produttori a produrti! Regia e fotografia sono ad esempio dei medium per parlare dei traumi, dell’esperienza personale, delle conseguenze della violenza, dell’impossibilità di poter inquadrare il mare e renderlo visibile a tutti. Questo è intelligente, e non è exploitation. La regia deve esplorare le tematiche, non sfruttarle. Credo che il regista e i fotografi si debbano occupare di quello che conoscono e che a loro interessa, non di quello che sembra importante. Ma ora noi viviamo in una forma di totalitarismo che è peggiore del socialismo, una dittatura dei finanziamenti che limita la libertà di creazione e produzione. Questo non vale solo per l’Italia: 

“hai mai visto un film europeo innovativo, provocatorio? Io non me lo ricordo. E allora, proprio per questo, sto scrivendo la sceneggiatura per un nuovo documentario sul mare; un documentario che parla dell’Antarctic. Essendo io una persona molto aperta, il film sarà una storia molto impersonale, legata  alla natura intatta dell’Artico. Sarà un film economico, attento alla forma del mare e dell’oceano, senza alcun calcolo di carriera, successo,potere o passione; inabissato nella forza del mare e dell’acqua ghiacciata”.

Riproduzione vietata © Gabriele Perretta. Tutti i diritti riservati
Tags: Gabriele Perretta l’immagine perversa

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