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La moda della morte dell’arte

Dario Orphée La Mendola

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L’arte è morta? Chi può dirlo. Ciò che notiamo è la costante teorizzazione di un’arte non più in grado di incidere sul piano storico, e l’altrettanto costante produzione di massa di opere generosamente definite “artistiche”. Chi fu il primo ad affermare tale morte dell’arte? E qual è il suo stato di salute oggi? Nell’articolo alcune non-risposte.

L’arte è morta. E saranno almeno duecento anni che l’arte è morta, no? Diciamo che è anche diventato di moda scriverlo ovunque. Per verificare ciò, indirizzeremmo volentieri a un testo molto approfondito sul tema (forse non esattamente agilissimo), intitolato “La «morte dell’arte» e l’Estetica”, di Dino Formaggio, in cui non soltanto è stabilito una volta per tutte il senso di questa funesta proposizione, ma l’estetica diviene una sorta di fenice che, dalle ceneri, ricomincia a essere se stessa: una disciplina (che tipo di disciplina lo dobbiamo ancora capire) autonoma. Anche Arthur Danto, più tardi, ne parlò, certo. Il fatto è che Formaggio non innalza ossessivamente Pollock e Warhol a profeti eroi; e questo è un motivo in più per leggere le ragioni dello studioso italiano: la cui grammatica è (fortunatamente) priva di effetti speciali hollywoodiani.

Il movente. Perché abbiamo creduto che l’arte potesse morire? Le ragioni sono tante quanto i libri scritti per rispondere a questa domanda. L’idea più comune è che l’Occidente ha abboccato alle teorizzazioni di Hegel, nonostante egli, con il suo “Auflösung”, pare non intendesse davvero “accompagnare” l’arte al cimitero. In realtà, al filosofo tedesco importava unicamente ciò che affermava (dunque fu lui a ucciderla!), considerando l’arte un momento passeggero, da risolvere con il proprio tripartitico sistema cerebrale. Riteniamo sia meglio non entrare in merito, poiché l’articolo si trasformerebbe in un elenco chilometrico di critiche a Hegel e compagnia; è bene dire, però, che non crediamo che l’arte possa morire: prima che muoia l’uomo, intendiamoci. Oh, sì, essa ha subito un certo grado di (questo è il termine corretto) dissoluzione. Di tanto, anche. E in male, soprattutto. Arte così brutta come quella contemporanea, infatti, non se ne era mai vista. E concetto così gratuitamente allargato, e produzione così di massa, nemmeno. Tuttavia, questi eccessi non indicano che l’arte si sia “dissoluta”. Che cerca di suicidarsi, forse è più corretto.

Viaggio romantico a Montmartre. L’arte muore con la morte dell’uomo? Ebbene sì. E dove eravamo rimasti prima che l’arte morisse? La risposta deve essere fornita agli occhi di un contemporaneo, per quello che il contemporaneo indica, con i suoi luoghi comuni, l’ultima frontiera dell’arte: Parigi, fine Ottocento. Prendiamo una guida a caso: la bella e celebre “Routard” (chi non l’ha mai sfogliata?). Una stellina indica un quartiere da visitare, al diciottesimo arrondissement. Il capitolo si intitola: “La Montmartre dei poeti, degli artisti, dei balordi e dei turisti”. Una bella ammucchiata. E comincia: «[…] fu il luogo prediletto da pittori, scultori e poeti. […] Renoir vi abitò e vi dipinse intensamente. Utrillo seppe rendere, nelle sue tele, il carattere poetico e melanconico delle vie e delle piazze». Successivamente alla Prima guerra mondiale, continua la guida, gli artisti si spostarono Montparnasse, e Montmartre fu preda dei palazzinari e del loro cemento. Oggi il quartiere dell’arte è abitato da «[…] vecchi proletari parigini e da artigiani […]. I piccoli negozi che chiudono sono rimpiazzati da professioni alla moda:», e cioè, udite, udite, «agenzie di pubblicità, stilisti, architetti, fotografi, “nuovi artigiani”, ecc. Gente con uno stile di vita disinvolto, nella tradizione vagamente bohème e libertaria […]». Eh? Viene da piangere. Sembra una di quelle cartoline spedite dai parenti emigrati, dimenticata in cantina, e ingiallitasi a causa di una bottiglia di olio che è stata sbadatamente poggiata al di sopra. La guida non lo afferma, ma se c’è qualcuno oltre agli hegeliani ad aver ucciso l’arte, si tratta di questa “gente disinvolta”. Non l’aria malsana delle fogne dei balordi.

Vaccinazioni e immunità. Concludendo: l’arte non è morta; il fatto è che sono stati sostituiti gli esseri umani in grado di tenerla in vita. Sostituiti da chi? Dalla “gente disinvolta”, che è, in fondo, l’istituzione più formale dell’arte contemporanea, la quale risente ancora (dite di no?) delle batoste iniziate con Duchamp. Essi sono i guardiani che, proteggendo se stessi, un po’ come Hegel, hanno spostato l’asse dell’artisticità in una dimensione medica e giuridica, eliminando tutto il fascino (quella vero, febbrile) dell’antico valore estetico: la possibilità di essere conoscenza. Ecco, se qualcosa nell’arte è morta, è proprio la conoscenza, strozzata dai grassi portafogli di pelle e dall’eliminazione e dei batteri buoni.

Moda e morte. Cosa si fa per non rinnovare continuamente il mondo, vero? Ci si inventa anche la morte dell’arte. Colpa della noia, ebbe a dire un filosofo francese con acutezza. Comunque vada, che strana vicenda: oggi che l’arte è di moda, in un mondo in cui tutti sono artisti, tale assurda attività, della quale non abbiamo definizione, agonizza. L’analisi migliore la fornisce infine Leopardi, in una situazione quasi teatrale (le vicende umane, in teatro, vestono serietà), con il dialogo tra due sorelle: Moda, che pone innumerevoli domande, e Madama Morte, che petrarcheggia. Lì ci sono le risposte, perché le allegorie godono sempre di una vitalità indescrivibile.

Tags: Dario Orphée La Mendola La moda della morte dell'arte Rivista Segno

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