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Senza parole

Dario Orphée La Mendola

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Biennale Venezia

Presentata la cinquantasettesima edizione della Biennale di Venezia. Tante novità. Una tra tutte: l’assenza della critica.

Questo articolo non avrebbe dovuto contenere parole. Per trovarsi in regola, sarebbe dovuto essere soltanto una pagina vuota, con le foto. Basta. Compito del lettore esprimere da sé un giudizio in merito al contenuto, bastonare l’autore, scrivere una lettera di proteste al direttore. Per cosa, non si sa.

Personalmente capisco la scelta di Baratta e Macel. Davvero. Certo non è una trovata geniale. Anche Lessing, nel secolo dei Lumi, ne aveva parlato. Ma è perfettamente contemporanea.

Innanzitutto è in linea con le analisi della psicologia sociale: nessuno vuole pensare. L’organizzazione scolastica, le prime tre pagine dei quotidiani, la musica (come sosteneva la Scuola di Francoforte il secolo scorso) sono la dimostrazione di questo annientamento del pensiero. Poi, fa comodo. Perché si ha, nel contesto della libertà di fruizione (libertà da cosa?), una maggiore dissoluzione dello spettatore, privata del necessario rapporto dialogico. (Chissà cos’è il dialogo…).

Mettere al bando la critica, affinché il fruitore possa meglio vivere l’artista e l’arte, secondo la concezione degli organizzatori, e con gli espedienti effettuati, del tipo: Tavola aperta, La mia biblioteca (che, scusate, sanno di Grande Fratello, o scimmietta allo zoo), è la soluzione perfetta, dicono, per questa edizione. Non è comprensibile un punto: perché, per vivere meglio l’artista e l’arte, la critica è stata decapitata? Ma qual è la concezione che si ha di essa? E perché la critica ingolferebbe la vita dell’arte?

Forse, argomentando con apparente serietà (sarebbe il caso), si è dato credito a quanto sostenuto da Barthes e Sontag, i quali dissero: fate parlare l’opera, e smettetela con queste “traduzioni” estetiche. Va bene: grandi intellettuali, tempo diverso dal nostro, e idea cattiva. Sulla critica, e non necessariamente in suo favore, c’è tanto altro. Questo “venirsi incontro”, annintando l’attività speculativa del gusto, segna in modo nascosto una discrepanza.

Finché si tratta della piccola galleria di provincia, che non inserisce il testo nel catalogo, tale decisione potrebbe passare similmente a una “licenza poetica” del curatore. Ma un’istituzione come la Biennale di Venezia, che avrebbe potuto ancora una volta arricchire il panorama della letteratura critica, non doveva minimamente immaginarlo. Ci sono, in Italia, troppe occasioni di rimbambimento: la TV in testa. Sarebbe stato meglio tentare di ristrutturare il nostro Paese in frantumi, non di accordarsi al sistema.

Allora perché è accaduto ciò? Forse perché arte e critica sono considerate da troppo tempo come una coppia in perenne crisi di divorzio, e non due amanti stabili. Così facendo non arriveremo mai ad assaporare il valore di entrambe.

Diderot e Schelling teorizzarono che nella complementarietà tra le due vi fosse sorta di filosofia applicata; tuttavia, sia i Salon che l’Idealismo estetico, a parte brevi parentesi, furono poco ascoltati. E si vede. Dispiace che di filosofia, oggi, a parte che nei ghetti dei festival, non vuol sentirne parlare nessuno. Eppure, il campo dell’arte sarebbe il suo posto. Soprattutto quando l’arte incontra la critica, e viceversa, la filosofia entra in un’atmosfera profumata di magia.

Che dire. Può andare la partecipazione creativa, sperando che non scadi in una partecipazione “turistica” delle opere, e purché non pregiudichi la professionalità di chi scrive di arte (riguardo alla morte della critica siamo vicini: mi pare che Filiberto Menna, e non Dario Orphée La Mendola, lo aveva intuito; o profetizzato). Può andare -anzi, così dovrebbe essere- la maggiore interazione tra l’arte e i suoi osservatori. Ma l’arte, che è il palco perfetto per le sceneggiature di indagine biologica ed emozionale, non dovrebbe presentarsi mai “monca” di una parte che la rende cosciente e storica. Mi viene in mente Caravaggio. E cosa ne sarebbe stato di lui senza Roberto Longhi. Mi viene in mente Joseph Addison. E le sue pagine dello Spectator. Mi viene in mente Wolfgang Köhler e la Gestalt. E al tempo impiegato sperimentando la psicologia dell’arte. Mi viene in mente Arthur Danto. E quanto avremmo compreso della scatola del Brillo Box. Mi viene in mente la Biennale di Venezia. E…

Per questo articolo, eccessivamente personale (e me ne scuso), sono state utilizzate troppe parole. Per mitigare sono stati aggiunti lunghi spazi silenziosi.

La conclusione avverrà adesso, con un suggerimento e una regola del kamasutra. Il suggerimento è questo: la prossima volta, per il titolo della biennale, non farebbe male consultare un critico. La regola, invece, è la seguente: un’opera privata del testo critico è come una donna che, dopo aver fatto l’amore, non riceve le dovute attenzioni dal suo compagno; e le attenzioni, e la donna lo confermerà, sono fatte spesso di bei testi critici: che ella teneramente chiama “parole e coccole”. Lì si documenta l’amore.

Tags: Biennnale Venezia

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