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Sulle Tracce del Sacro / MUDI / Taranto

Simona Caramia

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A quali condizioni è ancora possibile parlare di sacro?

E ancora, esiste ai nostri giorni un’arte che possa dirsi “sacra”?

Tali domande, di difficile, quando non di dubbia risposta, continuano a tormentare l’immaginario di critici e filosofi che, lungi dal pensare il sacro in termini di “categoria” standardizzata, rintracciano nella nostra epoca la duplice tendenza di affidamento al divino, dettata dall’insicurezza sociale e civile – necessità umana, troppo umana, che si reitera nella storia secondo mezzi e prospettive diversificate – e la progressiva indifferenza dallo stesso. E tuttavia il divino rimane un termine di relazione ineliminabile, la cui perdita irreparabile – analizzata anche e soprattutto da un punto di vista laicista – implicherebbe l’incapacità dell’uomo di entrare in contatto con i suoi simili, giacché il divino è innanzitutto apertura originaria: è l’apeiron che da “indistinzione” nella tradizione greca si trasforma in “infinito” positivo nella visione romana cristiana.

Ma se l’intellettuale medita analiticamente sul sacro, l’artista lo intuisce, restituendo nell’immediatezza dell’opera quelle risposte personali (alle domande iniziali) e non univoche, che esplicitano manifestamente – e naturalemente – proprio quella relazione imprescindibile con il divino al di fuori di noi.

Sulle tracce del sacro, in corso al Museo Diocesano di Taranto, offre tre prospettive differenti sulle condizioni di spiritualità e di sacralità. Tre opere, tre simboli, tre ambientazioni distinte, raccordate dalla curatela di Roberto Lacarbonara, che scandiscono tre modalità di relazione con l’Altro per antonomasia.

Così la Genesi di Giulio De Mitri è una costruzione di luce fisica e metafisica, racchiusa in un uovo. Simbolo di nascita, emblema di perfezione, l’uovo-simbolo permette all’artista di allargare il proprio universo semantico, rivelando qualcos’altro che non sia la sola “significanza” della forma, ma un contenuto quasi intellegibile: l’ascesa spirituale, veicolata dalla calda luce blu. Giuseppe Spagnulo sceglie il Libro quale emblema di congiunzione tra tutto il sapere, quindi sceglie di reinterpretare il contenitore della millenaria storia dell’uomo, dando vita ad una nuova immagine per creare un territorio ideale su cui riallacciare i fili dispersi di una cultura sconfinata. Forgiato nel fuoco, il Libro di Spagnulo è un valore plastico, ancor prima di esser un simbolo. Infine Cristiano De Gaetano, con una maschera mortuaria, presentifica l’assenza, nell’opposizione di positivo e negativo: il negativo del calco della maschera diventa non più rappresentazione, ma presenza viva del defunto. Ironico e provocatore, De Gaetano fonda la sua poetica sul gesto e sull’azione.

Tags: Giulio De Mitri; Giuseppe Spagnulo; Roberto Lacarbonara

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