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The Szechwan Tale. Una critica cercando una logica meticcia

Redazione

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The Szechwan Tale

The Szechwan Tale. China, theater and history è l’ultima mostra curata da Marco Scotini a Frigoriferi Milanesi, un’evoluzione di una sezione della prima Biennale di Anren svoltasi nel 2017. Le grandi tematiche affrontate, il teatro e la storia narrata, fungono da punto di incontro tra Occidente e Oriente, scavalcando la tendenza ad analizzare il diverso attraverso un approccio etnografico e incrementando lo sviluppo di una logica meticcia che accetta una continuità culturale tra differenti aree del globo. La necessità e la capacità di rappresentare realtà e finzione attraverso azioni improvvisate o studiate sono una caratteristica del comportamento sociale umano che si può riscontrare in molte culture, al punto che la si può definire una “struttura” straussiana, un fenomeno socio-culturale inscrivibile in un sistema di relazioni sistematiche e costanti. La mostra curata da Scotini è un’esemplare dimostrazione di come si possa, attraverso l’arte e la sua curatela, raggiungere un’universalità che possa decompartimentare la cultura grazie alle concomitanze e alle analogie esistenti nonostante il dislocamento geografico. In questo modo diventa un’interessante chiave di lettura di un elemento eterogeneo come il teatro, frutto di numerose ibridazioni dovute agli influssi coloniali. 

In questa operazione però sono diverse le contraddizioni che potrebbero stonare ad un’analisi più attenta,  che vada al di là delle intenzioni primarie descritte dal comunicato stampa. Il titolo, che ben indica la direzione curatoriale intrapresa e gli argomenti trattati in mostra, risulta fuorviante in quanto caratterizzato da un evidente punto di vista occidentale: il palese doppio riferimento alla Cina e alla regione del Szechuan attira lo sguardo dello spettatore verso una trappola esoticizzante, limitandosi a descrivere l’esposizione come un’isola in cui poter assaporare le arti teatrali cinesi, senza far alcun accenno all’intenzione più nobile di voler creare un ponte tra la cultura occidentale e quella orientale. Certamente, ciò opera in favore dell’affluenza alla mostra, in quanto è ormai accertato che il popolo italiano tende ad amare tutto ciò che reputa esotico, in particolar modo se arriva dall’estremo e irraggiungibile Oriente, come afferma Paolo Favero nel suo libro “Dentro e oltre l’immagine. Saggi sulla cultura visiva e politica nell’Italia contemporanea”. 

L’opera “Memory wardrobe” di Michelangelo Pistoletto, posizionata strategicamente all’entrata dell’esposizione, agisce sull’esperienza del fruitore trasportandolo in un mondo di finzione dove si può scegliere il personaggio da interpretare. Nella versione originale dell’opera, presentata in occasione di una mostra alla galleria L’Attico di Roma nel 1968, l’artista prese in prestito dei costumi teatrali da mettere a disposizione del pubblico per permettere la percezione del limite tra il sé e il rappresentato. In occasione di “The Szechwan Tale”, i costumi disponibili sono tutti riproduzioni di abiti tradizionali cinesi e uniformi del periodo maoista. L’adattamento dell’opera di Pistoletto non si dimostra adeguata alla logica meticcia alla quale il curatore mira, anzi dimostra una debolezza nei confronti di quella sensibilità universalista. Gli abiti infatti replicano la realtà quotidiana e della tradizione, e non i costumi di scena realizzati per le rappresentazioni teatrali nella regione del Szechuan. Il gioco in cui il pubblico viene coinvolto risulta perciò una parodia erede dell’immaginario colonizzato di cui sono affette le nazioni ex-colonizzatrici. La bellezza esotica allontana dal significato originale: il travestimento non permette un avvicinamento alla cultura orientale ma crea maggiore distanza perché si alimenta dell’idea dell’esotico coloniale. Inoltre la campagna pubblicitaria sui social di Frigoriferi Milanesi, in cui si spinge lo spettatore a diventare protagonista attraverso la pratica del selfie con indosso uno dei costumi di Pistoletto e l’hashtag #fmcentrocontest2018, non allevia la situazione di disagio postcoloniale. La strategia pubblicitaria risulta vincente sotto molti aspetti, ma porta a una spettacolarizzazione del gioco del travestimento esoticizzante che non giova alla lettura critica generale della mostra.

Sempre al gioco del teatro fa riferimento l’opera “Greeting” di Qiu Zhijie, divenuta immagine iconica dell’esposizione a Frigoriferi Milanesi. Le caratteristiche maschere colorate e allegre traggono ispirazione da quelle della tradizione cinese, indossate durante le festività, e si ispirano al romanzo “Il nome della rosa” di Umberto Eco, continuando il pensiero curatoriale della logica meticcia. In occasione della mostra “Satire” del 2013 era possibile indossarle per “guadagnare la libertà di ridere”, come descritto sul foglio di sala, ma purtroppo per “The Szechwan Tale” il proprietario dell’opera ha scelto di non dare questa possibilità al pubblico, per preservarne la conservazione. Questo cambiamento di utilizzo dell’opera, non dovuto a scelte curatoriali o artistiche, avvicina drammaticamente le maschere di Qiu alla condizione dei manufatti nei cosiddetti “musei della società” o etnografici (6). Gli oggetti che in origine avevano un utilizzo e che prendevano vita attraverso l’interazione diretta con l’essere umano perdono ogni valenza di significato culturale a causa dell’esposizione passiva su piedistalli isolati e isolanti. La negazione di esistenza della funzione dell’oggetto è il grande limite che rende inefficaci i musei di carattere etnografico e che spettacolarizza negativamente l’esoticità dell’oggetto in questione. Una maschera non è più una maschera se non può essere indossata, allo stesso modo in cui un coltello non è più un coltello se non può essere brandito. La scelta di portare in mostra un’opera interattiva come quella di Qiu, ma di esporla come una suppellettile priva dell’emozione fisica alla quale l’artista voleva legare il fruitore, risulta una nota amara nell’atmosfera di giocosità generale della prima sala dell’esposizione. L’opera d’arte diventa un feticcio incastrato tra la sua identità originaria e un’identità ibrida che potrebbe nascere grazie alla sua decontestualizzazione e apertura alla globalizzazione. Il white cube museale costringe le opere in uno spazio ristretto, le ingloba e le rinchiude, portando l’attenzione al contenitore invece che al contenuto. I costumi di Piero Gilardi, in esposizione in una differente sala, subiscono la stessa ingiustizia: “indossati” da dei manichini neutri, perdono il loro significato sociale e politico, diventando una lugubre sfilata carnevalesca incastrata in un corridoio bianco, senza un punto di partenza o un punto di arrivo.

L’infelice scelta espositiva all’interno di un corridoio a fondo cieco è stata adottata anche per l’opera “Theatrical piece” di Mao Tongqiang, ultima nel percorso della visita guidata. L’installazione è composta da 80 ingrandimenti fotografici di immagini segnaletiche di persone perseguitate dal regime maoista. L’intenzione dell’artista è di creare una rete di relazioni attraverso la vestizione dell’anonimato da parte di soggetti sottoposti a un potere che sovrasta. L’allestimento a griglia richiama fortemente, considerando l’aspetto visivo, altre installazioni fotografiche che purtroppo hanno segnato la storia occidentale: basti pensare all’esposizione dei ritratti dei prigionieri di Auschwitz-Birkenau all’interno di una delle casupole rimaste integre nel campo di Auschwitz I. La distesa di visi che guardano laconicamente al di là dell’obiettivo della macchina fotografica assumono forza grazie alla volontà di mantenere un’identità e una dignità anche di fronte ad una situazione critica come quella che stavano vivendo. Il luogo in cui le fotografie vengono esposte su lunghe file, un corridoio stretto nel quale le stesse persone raffigurate potrebbero essere passate, ha un impatto significativo sull’esperienza del visitatore e sulla storia che vogliono raccontare. In confronto, l’opera di Mao, all’interno di un lungo corridoio white cube, perde ogni presa sull’osservatore, il quale si ritrova di fronte a 80 volti decontestualizzati e privati della propria storia. L’effetto finale perciò incontra le intenzioni iniziali dell’artista, ma risulta essere un’azione insensibile nei confronti della memoria delle persone rappresentate. Se inoltre si richiamano le riflessioni di Susan Sontag sulla censura delle vittime, fino al completo anonimato dato dall’irriconoscibilità individuale dell’etnia asiatica da parte dello sguardo colonizzante e occidentale, si cade nuovamente nella trappola colonialista in cui i popoli colonizzati risultano inferiori e di conseguenza privi di diritti. L’artista cinese Mao, assecondato dalle scelte curatoriali operate a Frigoriferi Milanesi, viene risucchiato nella logica colonialista e razzista, imprigionando il suo Paese in un luogo lontano ed esotico dove la diversità risulta invalicabile e incomprensibile.

Cecilia Meroni

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