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Dialoghi con un feretro

 
 in ricordo di Luigi Baggi 

Tutto prima o poi ci può accadere nella vita. Così un giorno mi trovai vicino ad un Chef-d’œuvre inconnu, e quasi ci sarei caduto dentro. Adesso, ricordando quell’episodio, mi vien quasi da ridere al pensiero che se ci fossi caduto dentro sarei stato più vivo che mai, anziché morto, a meno che ci restassi per l’emozione, benché potesse trattarsi d’emozione, genere a parte, comune a molti giorni della mia vita, e non soltanto della mia vita.

Simile esordio di colore oscuro par fatto di proposito per imbrogliare un po’ le carte, ma questa sarebbe l’impressione fallace di un lettore poco provveduto. Perché infatti non c’è nulla di molto strano, per chi sa riconoscere gli svariati aspetti dell’inconnu, nel trovarsi a tu per tu con un opera. 

Non mi si dirà che per esempio dei drappi neri, con bordi argentei o dorate orlature, e magari con qualche ricamo appunto in stile lugubre possano impressionare, perché altrimenti suggerirò l’indirizzo di un curatore, o meglio di un cronista d’arte alla moda e che io personalmente conosco. 

Infatti immaginate tali drappi, tali orlature, parole di trine broccate, in tali ricami, uno stile lugubre del genere indosso ad un bel corpo di modella, e se appena siete normali guarderete la bella performer e meno vi soffermerete sui gusti discutibili che ella ostenta in fatto di abbigliamento. E se quanto a drappi neri, orli argentei o dorati, ricami di scene macabre, se quanto a questo ci si riferisce ad una impressionante installazione, che male c’è? Si potrebbe discutere intorno al fatto del riconoscimento: se cioè siamo in grado di riconoscere o no a prima vista l’opera. Ma anche le distinzioni sottili, i distinguo, sarebbero molti. A chi, per esempio, fosse detto “Ecco la tua opera” ottenendone la risposta “E che, opererò a lungo”e poi gli capitasse davvero di stendersi con quell’opera in prospettiva, si potrebbe dire che non ha riconosciuto la sua opera, anziché l’opera in genere. 

C’è poi un certo pubblico dell’arte che solo a nominare certe cose si sente fremere, e magari dice che freme per pudore di performance, mentre si tratta di paura davanti all’imprevisto: chi invece sa guardare in faccia la realtà dell’arte contemporanea, non si spaventa delle parole, e nemmeno dei fatti e, opera più, opera meno, anche se non è industriale della cultura in pompamagna né in tabarin, continua per la sua strada e al più ci fa su una risata, sia pure per spirito di contrasto. 

E magari invece colui che maggiormente si secca e si inquieta a sentir parlare di una bara, è proprio un eroe, uno di quelli che non temette la morte in arte, e che si sente rimescolare a parlar di catafalco artistico, come qualcosa che vive delle disgrazie di quelli che investono sul successo, forse mentre gli altri soffrono e si dissanguano mettendo su impareggiabili performance: d’altronde è logico che uno che abbia davvero nelle vene l’eroismo artistico non veda di buon occhio il precipizio della bara come opera finale e finalista, come simbolo di vita borghese e di chi specula sulla morte degli altri – quando sui campi di battaglia basta una performance, o un happening, per evitare i fastidi dell’affossatura.

Comunque, chiedendo scusa per la digressione, dirò che un giorno mi trovai a tu per tu con un’opera d’arte. Io, nei discorsi  e nei pensieri un po’ macabri e un po’ molto estetici, ci bazzico di gusto; adoro le storie di fantasmi estetici inventati, le idee che hanno dato vita a paesaggi artistici macabri, i racconti cosiddetti del brivido, laddove il brivido proviene dall’oltretomba dell’Accademia di Belle Arti o dalla Nausea dell’emergenza artistica delle Gallerie d’Arte e non dalle gesta di gangsters tipo William Burroughs; e mi piace quel genere di arte avveniristica o soltanto fantastica, dove scienziati folli agiscono ed imperversano seguendo un masochismo teorizzato da Gilles Deleuze. Con tutto ciò, debbo dichiarare che non riconobbi subito trattarsi di un catafalco artistico. Ammirai, sì, i drappi neri, le orlature della preparazione di tutto punto, delle decorazioni ammalianti, i ricami di fatti assurdi e le dorature ed argentee sagomature, le cimose eseguite a mano, sulla stoffa davvero pregevole, arieggianti quasi la danza della morte che m’incantò a Macerata. In quei momenti di vicinanza badavo – è vero – ai fatti di Gino De Demonicis e di Vettor Pisani, ma tuttavia avevo occhi anche per guardarmi intorno.

Era una vernice in cui m’ero dedicato a qualche follia insolita: se questo può far puntare contro di me il dito di qualche censore, dirò che avevo bevuto parecchio – bevande allucinogene – perdendo il mio spirito, forse, ma non la lucidità critica occorrente per badare all’estinzione dell’opera d’arte. Credo comunque che, osservando quell’ultimo lavoro di Francesco Matarrese, ero in me, quando mi trovai senza saperlo, vicino  quel catafalco artistico. 

E qui non vorrei gettare nella confusione il lettore, né tanto meno vorrei che il lettore pensasse che voglio fare sfoggio di creatività o creatinità, dicendo cose che possano fargli immaginare una mia profonda conoscenza del culto che la “morte dell’arte” ed il macabro ebbero specialmente durante questa fine degli anni ‘70. Se Bataille la chiamò sorella, se altri onorevoli personaggi le diedero sembianze e movenze ed ambienti atti a colpire la mente altrui, per terrorizzare o semplicemente per farsi ammirare; se talora persino qualche ubriaco, in fase di sbornia triste, indulge al macabro, non vorrei che con questi motivi il lettore spiegasse quello che sto per dire. 

Fatto sta che, dopo qualche istante di vicinanza con l’opera – un’opera-bara di lusso, firmata Demetz e lavorata da Luigi Baggi – contemplando i drappeggi delle stoffe nere, le dorature, gli orli argentei e striature del drappo e, oso dire, qualcosa dall’interno di essa, che mi si presentava senza coperchio o copricapo che dir si voglia, mi rivolsi a lei con parole umane, quasi volessi corteggiarla. 

Ed in realtà, benché quella sera avessi altri progetti,  mi disposi proprio a corteggiarla. E, a costo di essere noioso, ripeto che quella sera non ero ebbro, non ero in vena di performance vere e proprie e non mi sentivo tanto asceta da far la corte ad una bara, con francescani spiriti. 

D’altronde, come dissi, non sapevo ancora che si trattasse d’una bara. Quando incominciai a parlare, a interagire con l’opera funerea, mi parve che intorno si facesse un happening nel silenzio, e che tuttavia gli altri non mi badassero – bontà loro! E, udendo il suono delle mie parole, quasi compiacendomene, mi parve che, avvolta nei drappi neri orlati d’oro e d’argento, una figura installativa si animasse e mi prestasse attenzione. Fu delirio di scomposti sensi? O aberrazione allucinata di interattività? O freddezza cosciente verso un’astrazione materializzata? Non saprei dire. 

So dire però che mi parve di trovarmi accanto alla più bella immagine da me conosciuta e mentre credevo di sprofondare non so in che baratro o in che altezze che mi risucchiassero a vortice dandomi l’impressione di precipitare dalla felicità, sentivo effettivamente una voce soave di un registratore a bobine parlarmi, accarezzarmi, quasi, con una profonda phone. E, quanto alle carezze, non era soltanto la voce. Infatti qualcosa di tiepido come una mano s’era posata sul mio braccio o, più realisticamente, un vento ultraterreno aveva mosso un lembo del drappo nero orlato d’oro e d’argento a sfiorarmi? Non so. Furono attimi intensi, brevissimi. 

Feci in tempo a pensare che i drappi neri con ricami di scene macabre che vedevo accanto a me  potevano benissimo appartenere ad un’opera d’arte contemporanea. E mentre la voce della creatura che avevo generato io stesso, o che da quei drappi usciva, mi diceva di seguirla, di andarmene con lei, ricordavo con un certo brivido – e quindi esitavo a muovere il distorsore sonoro – una certa mia scrittura in cui uno scrittore reietto e misconosciuto incontra su di un poggiolo di una galleria d’arte un’istallazione seducente, interattiva, che l’invita a seguirlo, che lui segue, e che è lo specchio dell’opera d’arte, l’opera d’ARTE CONTEMPORANEA. 

Eppure, nonostante quel pensiero, nonostante quel flusso di immagini nell’IMMAGINE, ero deciso a seguire colei che mi diceva di seguirla. Tacendo, mi alzai. Vidi ondeggiare i drappi dell’installazione, vidi muoversi, apparire e scomparire nelle pieghe le figure macabre ricamate su quei drappi; la luce elettrica del salone colpì gli orli dorati ed argentei di quei panni. Ma improvvisamente tornai in me, e compresi. 

“Mercante vuole seguirci?”… 

Due distinti signori in doppiopetto grigio, giunti alle mie spalle, avevano preso sottobraccio un malloppo di opere d’arte, che stava alla mia destra, e che adesso si allontanava docilmente tra i due trasportatori di bare, facendo ondeggiare il suo originalissimo abito in drappo funereo, con orli dorati ed argentati, abbellito e infoscato da ricami di scene macabre. 

Intorno a me sentivo mormorare delle registrazioni alla Majakovskij: “È un feretro artistico. Finalmente l’hanno trasportato”.

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