La mostra dedicata all’Abruzzo, la mia regione, aumentava il senso di empatia che io e Armin corrispondiamo da quando ci siamo conosciuti a Milano, la sua città, circa trent’anni fa. Armin allora era agli inizi e stava lavorando a un libro sui ritratti degli artisti contemporanei, tipo Paul McCarthy, John Armleder, Vanessa Beecroft e tanti altri a cui mi chiese di partecipare, non come persona da ritrarre, ma come intervistatore. C’era e c’è anche un’altra intervista nel libro fatta da Hans Ulrich Obrist il curatore critico intervistatore per eccellenza.
Dopo tutto questo tempo, sono tornato a intervistare Armin e penso di essere in qualche modo ripartito da dove l’avevo lasciato. Tuttavia, benché l’occasione di questa intervista nasca dalla mostra presso Vistamare e quindi in Abruzzo e con opere fotografiche relative all’Abruzzo la chiacchierata non verte solo su quella mostra, ma parte dall’infanzia, come mi piace sempre fare per arrivare all’oggi, all’Abruzzo in questo caso luogo dove ritrovo la mia infanzia.
Insomma un’intervista percorso che penso sia come sempre per tutti un viaggio di andata e ritorno che l’arte promette.
Quando è nato in te il desiderio di voler aver a che fare con la fotografia?
Forse nella mia adolescenza avevo 12 anni. Ero anche interessato e incuriosito perché i miei genitori avevano una camera oscura. Mia madre era Art director di una rivista di design del tempo Linea italiana – una rivista di design e di moda – e in questa camera oscura spesso facevano delle elaborazioni di immagini per dei servizi di questa rivista. E lì avevo cominciato a capire o a vedere proprio la fotografia. Spesso si andava anche in questa galleria di Milano “Il Diaframma” che era diretta da Lanfranco Colombo dove venivano presentate altre posizioni più artistiche utilizzando la fotografia.
C’è una foto, o un’immagine che ti aveva colpito più delle altre quando eri ragazzo?
Mi ricordo anche di aver visitato una mostra, penso nel ’77, che era “L’occhio” di Milano. 48 fotografi che era curata da Cesare Colombo un fotografo di reportage ma anche di antropologia sociale, ed era anche interessante che un fotografo curasse una mostra. Nel 77 dunque avevo 11 anni forse quando ho visto questa mostra che in qualche modo mi ha colpito. C’è poi anche il catalogo che mi ha un po’ seguito di questa mostra. Era anche interessante vedere le diverse tipologie di approccio alla fotografia. E anche un libro interessante di fotografia era “La storia sociale della fotografia” di Ando Gilardi. C’è un approccio nuovo più generale della fotografia un libro in cui la fotografia viene letta non solo come fotografia autoriale ma come mezzo mediale e culturale della nostra società Gilardi guarda anche per esempio la fotografia più operativa e ne fa una lettura culturale.
Come, quando e perché ha i avuto la prima macchina fotografica?
Sempre attraverso i miei genitori, mio padre aveva una Canon, ho cominciato ad utilizzarla e nella camera oscura ho cominciato a sviluppare. Dopodiché mi hanno regalato un Rollei 6 × 6 e ad un certo punto, quando ero assistente di Enzo Maccera, mi sono comprato una Leica. E così pezzo per pezzo ho attraversato vari spazi. Ad un certo punto mi sono comprato un banco ottico. Sono tutte macchine fotografiche una diversa dall’altra.
Quali foto hai scattato con il primo rullino?
Non ricordo bene ma penso che, se guardo il mio archivio, fosse la foto di una foresta, dei campi in Germania, quando sono andato in viaggio con mio padre, in visita da degli amici. Tra le prime foto, come Hoverkraft , ero andato a Londra con mio padre e Dunkirk, abbiamo preso questo hoverkraft che era un mezzo abbastanza strano e speciale, questa nave che viaggia su un cuscinetto d’aria sull’acqua.
Erano foto a colori, o in Bianco e nero?
Erano in bianco e nero.
Le foto in bianco e nero all’inizio le sviluppavi da solo o ti sei affidato da subito a un laboratorio?
Tutto il bianco e nero all’inizio lo sviluppavo da solo, e anche lo stampavo da solo. Poi ad un certo punto ho cominciato a lavorare anche con un laboratorio che era de Stefanis, oppure con un laboratorio che si chiamava Toni e stampava anche per Gabriele Basilico ed era un modo anche per capire, per imparare, per andare avanti. È stato importante anche il periodo da assistente sia prima d’Amsterdam in uno studio di fotografia industriale che poi con Enzo Macera un importante ritrattista che aveva una grande attenzione per la stampa fotografica, quasi come se fosse una specie di incisione in cui la tecnica di stampa era particolarmente importante, anche dal punto di vista manuale e interpretativo.
Dopo gli studi canonici, la scuola d’obbligo, hai fatto una scuola di fotografia, o ci sei arrivato per vie traverse?
Ero indeciso se fare architettura, cosa che ho iniziato, poi mi sono iscritto in questa scuola, poi però, appunto, lavoravo come assistente e spesso non c’andavo quindi sono stato anche bocciato.
Hai iniziato da quando a fare foto opere d’arte, o sei passato attraverso altri campi espressivi, mi pare che all’inizio facevi foto per il teatro, o sbaglio?
Sì, all’inizio lavoravo molto per il teatro anche perché era uno dei miei interessi e seguivo anche un po’ la scena dell’avanguardia, degli anni ’80 che era legata ai gruppi attorno a Franco Quadri che era un critico di teatro che pubblicava anche libri e lavorava per delle riviste off come Frigidaire. Diciamo che la fotografia era comunque un modo per interfacciarmi e per studiare questi altri mondi. Il teatro era anche una possibilità, proprio una scuola, perché il palcoscenico funzionava come una superficie dove avvenivano delle azioni chi erano già state diciamo già programmate, come se fosse una partitura musicale che era da eseguire. In un certo senso era di scuola perché il teatro permetteva di avere unità di luogo e di tempo e io dovevo decidere come interpretare questa partitura posizionando il mio corpo in relazione ai corpi degli attori e allo spazio della scenografia. Questa cosa poi avveniva anche altre in altri luoghi perché se penso a un lavoro come Corpo dello Stato per il MAXXI, dove ho fotografato i luoghi della Costituzione italiana, la cosa è più complicata perché la partitura non è così chiara, si era in uno spazio architettonico e si cerca di capire come è stato progettato, come è stato riutilizzato per uno script che potremmo chiamare ‘funzionale’, ‘teatrale’, quello di un processo cerimoniale sociale politico.
Perché proprio il teatro, ti interessavano le persone?
In molte delle mie fotografie c’è questa relazione tra spazio e corpo e come gli spazi sono stati disegnati perché i corpi possano avere delle coreografie all’interno. Anche nei miei ritratti degli artisti in un certo senso, perché c’è l’atelier, quindi un luogo di lavoro e l’artista che vi si muove dentro.
Oggi l’interesse per le persone è molto lontano, prediligi altre forme: ambienti naturali, architettonici.
Sì e no perché quando fotografo un ambiente naturale o architettonico, fotografo anche l’iscrizione del gesto umano che ha creato questo ambiente o che ha modificato questo ambiente o che, appunto, ha creato questa architettura o riadattato hai modificato, utilizzato, questa architettura. Perciò, anche se le persone non sono presenti, è sempre una fotografia delle persone attraverso questi gesti negli spazi, attraverso lo spazio che è stato creato. Gli spazi che fotografo sono sempre spazi che sono stati modificati dalle persone degli esseri umani, è sempre comunque una relazione antropologica di lettura gli ambienti naturali architettonici.
C’è un fotografo, o un artista a cui ti sei, almeno all’inizio, ispirato?
Beh sicuramente ho letto delle biografie già parlato di Ando Gilardi prima, un’altra figura interessante era Man Ray che collaborava con altri artisti, nasce come pittore poi diventa art director di riviste di design, poi elabora manifesti concettuali collabora spesso in collettivi… la figura di un fotografo e artista più aperta e interessante. È importante capire che il mio è stato un lavoro spesso collaborativo, collettivo e perciò diciamo quest’idea di ispirazione e spesso è ancora presente perché in molti progetti ancora collaboro.
Fotografi per tematiche: montagne, laboratori scientifici, luoghi istituzionali, …
Difficile rispondere, sarebbe più interessante andare a leggere proprio le fotografie. Diciamo che un esperimento espositivo che ho fatto, con la mostra che è stata presentata al PAC di Milano, “l’apparenza di ciò che non si vede”, era di prendere una serie di fotografie scelte per temi e poi fare leggere ad altri esperti queste fotografie secondo i loro temi o quali temi loro vedevano all’interno delle fotografie, come era possibile rileggere i temi all’interno le fotografie. Penso che un’opera d’arte interessante permette delle letture multiple, più stratificazioni di letture sono possibili, anche più temi sono intrinseci alle immagini, più l’opera d’arte è interessante, ricca. Dunque mi interessava presentare le fotografie non come punto di arrivo, dove io incornicio la foto e la blocco e dico questo è il tema questa è la mia visione, ma usare le fotografie come punto di partenza come “trigger”, iniziatore di discussioni, di messa in gioco. Sicuramente quello che è uno dei temi come la montagna, come il mio film sulle Alpi, in verità non è un film sulla montagna, ma sulla rappresentazione del paesaggio alpino, perché è un film dove le montagne non si vedono quasi mai, si vede casomai come vengono utilizzate, si vede come vengono rappresentate nei laboratori scientifici per controllare il territorio, si vedono le montagne nei dipinti o come vengono proiettate il nostro immaginario dall’industria turistica. Spesso la rappresentazione stessa del luogo è il tema della fotografia e non il luogo. Il laboratorio scientifico è anche un luogo della rappresentazione perché il laboratorio è dove bisogna ricreare, come in teatro, il mondo esterno, bisogna a volte semplificarlo, o bisogna isolare diverse variabili per poi fare l’esperimento, che è una messinscena e che permette poi di raccogliere e poi standardizzare dei risultati. Perciò il laboratorio è un luogo anche artistico, in cui lo scienziato deve creare uno script, una coreografia, è un luogo di rappresentazione.
Anche nei luoghi istituzionali esiste uno script esiste una regola, un canovaccio, per esempio la Costituzione, sono dei luoghi dove avviene un dibattito, dove diversi attori della nostra società decidono di pianificare un futuro. È un luogo dove si pratica il design, la progettazione della nostra volontà comune di cittadini. Dunque, di nuovo un luogo in cui viene proiettata la visione dell’esterno, della nostra società, dove viene come in un laboratorio divisa per script, per modelli più piccoli e dove viene dibattuta dove viene diretta. In qualche modo questi luoghi hanno bisogno di rappresentare attraverso l’architettura, attraverso dei segni artistici, questa loro funzione sociale e rappresentativa. Sono questi segni che mi interessano.
Il tuo è un lavoro dal sapore interdisciplinare, pur condotto con il mezzo fortemente specifico della fotografia, perché questo interesse per la trasversalità?
Penso che sia una curiosità, capire come è costruito il nostro mondo attraverso il tempo e lo spazio.
Non c’è dubbio che più di ogni altro, la fotografia è uno strumento della memoria, che ruolo ha in te la memoria?
Fin dall’inizio diciamo nella mia pratica ho incominciato a costruire un sistema di conservazione e di catalogazione dell’immagine, un po’ con l’idea che se facevo un’immagine era importante conservarla per poter vedere in futuro se ci potessero essere degli ulteriori livelli di lettura. In quel senso la memoria serve a rileggere il contemporaneo, serve a imparare, a riprogrammarsi e le immagini fanno parte della memoria.
A me sono sembrate immagini familiari ma nello stesso tempo spostate verso il terreno dell’arte. Voglio dire che alcune immagini mi fanno pensare a Burri, altre a certa pittura informale. Quasi ogni immagine sembra cercare, o proporre un riferimento all’arte visiva, soprattutto alla pittura. E’ cercato, oppure si nutre di una predisposizione naturale che è in te?
Quello che mi interessava in questo progetto era l’idea di materia, come rappresentare la materia, forse perché il paesaggio abruzzese è estremamente materico attraverso la sua varietà. In molte di queste immagini ci sono, strutture, superfici, che riprendono la storia della stampa, la storia della riproduzione e varie tecniche di rappresentazione tra cui anche quelle pittoriche, quelle più astratte, materiche, legate agli anni ‘60 ‘70 dello scorso secolo. Spesso la fotografia funziona come dichiarazione sculturale, cioè se si fotografa un oggetto o una composizione di oggetti e attraverso il momento fotografico si dichiarano sculture. Un oggetto che sembra comune o quasi banale, gli si dà una dignità sculturale, artistica, diventa un’iscrizione importante, un’iscrizione materica.
L’ultima fatica, ma nel tuo caso sarebbe meglio dire piacere, l’hai esposta da Vistamare a Pescara. Si tratta di una serie di foto che riguardano luoghi abruzzesi, a cosa è dovuto questa scelta?
Questa scelta è dovuta al fatto che con Benedetta, che conosco ormai da quando ha aperto la galleria, e dopo aver viaggiato e prodotto molto immagini, volevamo fare qualcosa per la galleria, per il territorio, in relazione all’Abruzzo. È sempre stato un luogo che trovo particolarmente interessante, parlavamo prima dei laboratori, cioè un luogo che è anche un modello perché variegato al suo interno, dalla montagna al mare, per semplificare. Ma è anche una specie di perno dell’Italia. Un luogo legato a tradizioni lontane ma nello stesso tempo un paesaggio quasi da fantascienza, tra l’altro usato spesso per produzioni cinematografiche. Quello che è interessante è che alcuni luoghi hanno questa qualità quasi fantascientifica come la piana del Fucino dove ho fotografato le antenne satellitari dell’agenzia spaziale italiana, cioè un posto che superficialmente sembra isolato ma che in verità ospita le infrastrutture che a livello globale e satellitare collegano tutta l’Italia. Tutto avviene proprio dove uno pensa di essere isolato. L’altra ispirazione è questa citazione di Manganelli: il paesaggio dell’Abruzzo è un grande produttore di silenzio. E l’idea del paesaggio senza rughe, sempre una citazione di Manganelli, un paesaggio comunque sospeso.