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Dove non fui mai, DAMP

Dove non fui mai alla Mapilsgallery di Napoli è un percorso intimo di accompagnamento alla decostruzione di un concetto prettamente fisico di spazio; è la dichiarata volontà del giovane collettivo napoletano – DAMP, acronimo degli artisti Luisa de Donato, Alessandro Armento, Viviana Marchiò e Adriano Ponte – di guidarci tra i luoghi insidiosi della memoria e dell’immaginazione in un viaggio verso un ipotetico e destabilizzante altrove.

Il percorso espositivo tracciato dagli artisti si compone di tre installazioni a cui corrispondono tre differenti tappe di un cammino personalissimo e unico in cui ciascuno può ritrovare o perdere se stesso.

Ognuna di queste tappe ci pone, infatti, il confronto con un luogo astratto, indecifrabile e irraggiungibile, un luogo a cui solo la mente o le nuove tecnologie digitali possono accedere, trasformando questi “non-luoghi” in luoghi altri, ma ancora possibili.

Nella prima sala della galleria, il visitatore si confronta con i luoghi mai avverati di “Contesti”, un lavoro basato sul potenziale icastico delle parole. L’installazione a parete è costituita da pagine di libri ritagliate, da cui sono state estrapolate parole e frasi brevi riferite a semplici descrizioni di luoghi, che però – isolate e decontestualizzate dal supporto originario – sono capaci di costruire nella mente di ciascun visitatore immagini e storie nuove, legate a ricordi e suggestioni profondamente personali.

Entrando nella sala successiva, il visitatore si immerge nei luoghi mai raggiunti di “Approdi”, dove l’altrove è ricreato virtualmente all’interno di un tubo in pvc aperto su entrambi i lati, attraverso le immagini digitali, all’apparenza identiche, di due orizzonti marini ripresi da coste contrapposte (da Napoli verso Palermo e viceversa).

I luoghi mai raggiunti sono quei paesaggi nascosti oltre la linea dell’orizzonte di cui non si sa nulla e su cui si comincia a fantasticare; sono metafora del bisogno incessante dell’uomo di porsi domande, di esplorare l’inesplorato e di conoscere lo sconosciuto, di annullare le linee di confine e di provare a spingersi oltre il visibile; così come sono anche metafora del bisogno dell’uomo di speranza, la necessità di credere che ci sia sempre un’alternativa, una realtà altra rispetto a quella in cui ci si trova.

Dall’atmosfera sospesa dei luoghi mai raggiunti, si passa a quella straniante dei luoghi di passaggio dell’ultima installazione, “Lost in translation”.

All’installazione si accede attraverso una scala a pioli che porta a un soppalco avvolto da una luce bianchissima – che rimanda immediatamente alle luci fredde e asettiche delle sale d’attesa di un aeroporto – in cui l’idea di transito è resa attraverso voci di persone di diversa nazionalità contattate online, che, nelle rispettive lingue d’origine, scandiscono coordinate geografiche di aeroporti, poi tradotte in maniera distorta da Google Translator e riportate dagli artisti in un unico testo proiettato a parete.

Proprio come nel film diretto da Sofia Coppola, anche qui qualcosa si è “perso nella traduzione”, esplicitando una situazione di incomunicabilità e disorientamento da cui però scaturiscono per gli artisti improvvise opportunità di creazione di luoghi nuovi e inventati, dalle coordinate inesistenti.

Attraverso questo progetto espositivo, il collettivo ci regala l’esperienza di un viaggio in bilico tra la sicurezza di rimanere aggrappati alla realtà attraverso i nostri ricordi e l’audacia di scoprire e vivere dimensioni nuove lasciando a briglie sciolte la nostra immaginazione.

Il “Dove non fui mai” di ascendenza caproniana rappresenta proprio il luogo in cui l’altrove diviene finalmente possibile in una dimensione profondamente intima e immaginativa.

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