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Gianni Piacentino – Segno 286

“Ti assicuro che grazie a questa metodicità, alla mia mania di procedere per variazioni nelle vernici, nei diversi elementi, si sono sviluppate tante idee nuove”: a parlare in questi termini della sua arte, in conversazione con il critico e curatore Andrea Bellini, è il piemontese Gianni Piacentino. Nato a Coazze, nell’hinterland torinese, nel 1945, all’età di vent’anni, entra nel giro del gallerista torinese Gian Enzo Sperone, tra i principali promotori dell’aggiornamento in senso “poverista” dell’arte italiana nella seconda metà degli anni Sessanta. Il 1965, anno in cui vanno fatti risalire i primi, grandi lavori monocromi di Piacentino, è stato scelto come punto d’avvio della mostra Works 1965-2021, allestita, dal 9 aprile fino al 30 luglio, negli spazi della galleria bolognese di Enrico Astuni. La rassegna raccoglie l’“unica grande opera” di Piacentino ed è firmata dallo stesso Bellini, già responsabile della prima, grande retrospettiva dell’artista torinese al Centre d’Art Contemporain di Ginevra (2013) nonché unico, tra i curatori che hanno lavorato con lui, ad avere “carta bianca” in fase progettuale e a poter vantare una totale libertà d’iniziativa: “sei l’unica persona a cui le ho fatte installare [le opere], sai?”, confessa Piacentino nella lunga intervista in catalogo: un sincero attestato di stima da parte di un artista che, prima ancora del suo esordio ufficiale, aveva avuto modo di distinguersi come “uno che sapeva installare bene le mostre, che era attento”

Prima di Sperone, nell’altrettanto celebre galleria Il Punto di Luciano Pistoi, il giovane Piacentino si era fatto notare per lo zelo e la “pignoleria” nel montaggio di opere di Cy Twombly e René Magritte. A quel tempo l’artista aveva inoltre “ereditato” da Giulio Paolini una piccola soffitta nel centro di Torino per adibirla a studio. In principio, dunque, furono Paolini e Pistoi. I contatti con il gallerista, romano d’anagrafe ma torinese di formazione, risultarono decisivi per l’ampliamento della sua personalissima “pinacoteca” mentale. Fu proprio Pistoi, infatti, a far conoscere a un Piacentino non ancora ventenne la pittura di Piero della Francesca, in occasione di un viaggio in Toscana che l’artista colloca attorno alla Pasqua del 1964. L’impaginazione spaziale di Piero e la sua gamma a saturazione minima dei rosati e degli azzurri divennero gli ingredienti primari della proposta cromatica di Piacentino, e unitamente alle riflessioni di Paolini sul supporto pittorico (Delfo, 1965) crearono l’humus culturale necessario ai primi, grandi monocromi: tra i primi lavori, del ‘65, presentati in mostra, come Zorba U.R. o 3D (quest’ultimo andato distrutto e ricostruito ex novo) è tuttavia D.S.O. – proposto in una versione successiva, del 2017, in alluminio anodizzato (Anodised Aluminium D.S.O.) – il lavoro più vicino all’ortodossia paoliniana: in questo caso, Piacentino non agisce sul supporto concreto, il telaio, ma sceglie, al contrario, di “isolarne gli elementi ed espanderli nello spazio”. La presenza di Paolini fu determinante anche per il rafforzamento dell’imprinting con l’elemento cromatico: in Senza titolo (Plakat Carton), del ’62, Paolini aveva attaccato su un telaio, precedentemente ricoperto con strisce di polietilene trasparente, i cartoncini di un campionario cromatico – il Plakat Carton, appunto – fissandoli in superficie con dei puntini metallici. L’indubbia rilevanza di opere come Plakat Carton, nel processo di elaborazione formale dei futuri monocromi di Piacentino, non deve tuttavia condurre a proposte genealogiche comode: “La capacità di descrivere i colori”, confessa Piacentino a Bellini, “nasceva in me dall’amore per i francobolli”. “Nei cataloghi dei francobolli”, continua l’artista – come quelli della sua collezione toscana dell’Ottocento – “trovi scritto ‘viola brunastro intenso’, ‘viola brunastro leggero’, e così via”.

Quello con il colore, che Bellini mette al centro del dibattito (In principio era il colore è il titolo scelto per la conversazione), è sempre stato, per Piacentino un legame concreto, mai relegato tra le pieghe dell’astrazione intellettuale. Dai Maestri del Colore di Skira, tasselli fondamentali per la creazione di un primo database visivo, alle prime cornici verniciate e alla “puzza di trementina” nella casa di famiglia. Se già allora [primi anni ‘60] mi preparavo le tele da solo”, rivela Piacentino, e se “già all’età di sedici o diciassette anni realizzavo i campionari”,

L’intero articolo appare sul numero 286 della rivista Segno.

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