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Hassan Sharif. Sharjah Art Foundation

Cristina Rosati

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Hassan Sharif

Images on Tracing Paper (2015), uno dei più interessanti pezzi della retrospettiva su Hassan Sharif (1951-2016), artista concettuale degli Emirati Arabi Uniti, è una semplice raccolta di disegni su carta traslucida, tenuta insieme col cartone e cucita a mano con fili molto vivaci. È uno degli ultimi lavori dell’artista, completato mentre era in ospedale,  sottoposto a sedute di chemioterapia. Piena di scarabocchi astratti e illustrazioni di oggetti come biciclette e utensili da cucina, restituisce l’immagine toccante di un artista così dedito alla sua pratica da continuare a lavorare fino agli ultimi momenti.

Esecuzione traballante e cuciture lente, Images on Tracing Paper invita al rispetto, poiché sembra l’umile testimonianza di un artista che invece negli Emirati gode della fama di un mito. Infatti la sua vera storia è più complicata, basti pensare che l’ultima vera opera di Sharif è il gigantesco Colors (2016), un gioioso muro sospeso fatto di file di corde colorate.

Una certa tensione tra storia e agiografia ha caratterizzato la storica rassegna dedicata a Sharif, artista dalla carriera prolifica.  Coprendo più di quaranta anni di attività, la grande mostra esigeva molte visite, ricca com’era di oltre trecento opere e materiale d’archivio supplementare. La selezione ha spaziato dai primi lavori dell’artista, giovane caricaturista satirico per un giornale di Dubai (nel clima  più libero degli anni Settanta criticare il potere era ampiamente possibile), fino alle sculture di assemblaggi di materiale comune per le quali oggi è noto a livello internazionale.

Sheikha Hoor al Qasimi, presidente e direttore della Sharjah Art Foundation, ha curato la mostra organizzandola per temi, con piccoli momenti dedicati agli aforismi di Sharif, come “Sono un fabbricatore di oggetti”, oppure “Sono fedele al colore”. Fino a un decennio fa l’artista compariva di rado nelle cronache ufficiali degli Emirati, ma poiché le ambizioni culturali  del paese sono cresciute – come dimostra, per esempio, l’istituzione di una Sharjah Biennial – è diventato politicamente e commercialmente conveniente  costruire una storia delle origini dell’arte nazionale. Così, Sharif è stato frequentemente indicato come il padre o l’antenato dell’arte contemporanea degli Emirati, etichette che peraltro l’artista ha sempre rifiutato. Potrebbe essere più appropriato chiamarlo “professore”: la riproposizione su grande scala della sua opera ha infatti ricordato ai visitatori che egli è stato di insegnamento per i più importanti artisti degli Emirati, tra i quali Mohammed Kazem e Abdullah Al Saadi.

La parte più avvincente della mostra ha presentato i primi esperimenti di Sharif artista concettuale. Di particolare rilievo le performances del 1980 nello stile del gruppo Fluxus, realizzate sulla scorta della sua prima formazione sull’arte formale a Londra. Fotografie, film e i prodotti di performance lo vedono disegnare sui muri, fare il salto in lungo, contare le macchine sulle strade di Dubai, gettare sassi nel deserto. Queste opere incarnano sia lo spirito giocoso, evidente nell’intero percorso dell’artista , sia la fascinazione per la reiterazione e la sequenza, vale a dire per ciò che lui stesso definì “semi-sistemi”.

Particolarmente esaltante l’installazione del 1985 Central Market Sharjah – ricreata parzialmente in mostra e fotodocumentata –,  nella quale Sharif  sistemò una quantità di oggetti della vita quotidiana (bottiglie d’acqua e  buste di plastica arrotolate, pannelli dipinti che ricordano cruciverba) sul marciapiede esterno del Blue Souq, un grande mercato coperto a pochi passi dalla Sharjah Art Foundation. Portare l’arte nello spazio pubblico in questo modo fu un atto democratizzante in senso radicale. E tale è stato anche il riutilizzo dei rifiuti per le sculture che cominciò a produrre negli anni Novanta.

Infradito di gomma, oggetti per la casa di basso costo, incarti di merendine, utensili, rifiuti elettronici, oggetti industriali vari sono tra i materiali coi quali Sharif creava tumuli voluminosi ed esuberanti muri sospesi. Interpretati come critica alla commercializzazione aggressiva che travolse gli Emirati dopo il boom del petrolio, queste opere si leggono oggi come il materiale archeologico della nazione. Nel momento in cui gli Emirati sono sinonimo di consumismo sfrenato, i semplici oggetti di consumo dell’opera di Sharif propongono un confronto con la realtà vera del paese, e non con la sua immagine fittizia.

A dispetto delle immagini veicolate dai media, gli Emirati oggi dipendono ancora molto dal commercio di beni di base. In questo paese le più giovani generazioni di artisti  tendono ad ignorare tale persistente condizione per rispondere alla visione romantica del passato beduino promossa dai leader al potere, o per seguire l’accattivante nozione di Futurismo del Golfo. Sharif, invece, rimase artista del presente e del quotidiano. Per preparare questa mostra ci sono voluti molti anni, e la sua apertura è stata sospesa fino a dopo la scomparsa dell’artista, lo scorso autunno, su sua stessa richiesta, così che è sembrata essere un necrologio ufficiale. La grande scala della mostra poteva essere ottenuta solo con ingenti risorse e il sostegno del governo; insomma, è difficile scacciare via la sensazione che tutto ciò  sia stato troppo e troppo presto, ma forse grazie ad essa siamo tutti un po’ più ricchi.

Articolo originale di Rahel Aima pubblicato da ©Art in America
Traduzione di Cristina Rosati.

Hassan Sharif

Copyright © Rahel Aima. Originally published by Art in America, February 2018.
Republished by permission of the author and Art Media Holdings, LLC, New York.

Tags: #traduzioni Hassan Sharif Sharjah Art Foundation

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