I’(m) SOLA

All’interno del fitto calendario di eventi promossi da SetUp Contemporary Art Fair2019, kermesse bolognese d’arte contemporanea emergente dedicata agli under 35, si è distinto I’(m) SOLA, progetto performativo nato per un’unica messa in scena e destinato ad un pubblico ristretto su prenotazione. Sulla scia di “Itaca” tema scelto in occasione di questa VII edizione dalla Direttrice Simona Gavioli, si è mosso lo spettacolo ambientato nelle storiche sale di Palazzo Pallavicini, ideato dalle due attrici protagoniste, Marina Visentini ed Elena Copelli,realizzato in collaborazione con la compagnia mantovana di ricerca nata nell’88, Teatro Magro. Il punto di vista drammaturgico di questa versione – che parte dall’Odissea per poi reinventare un testo di sana pianta – è rovesciato per una visione inedita tutta al femminile: in scena l’attenzione è focalizzata su Penelope che, contrariamente al suo tradizionale ruolo che la vuole sposa paziente e devota, relegata in secondo piano rispetto all’eroe Ulisse, si fa interprete degli stati d’animo più nascosti che la attanagliano. Il luogo fa da contraltare al suo stato d’animo: la terra circondata dal mare amplifica la situazione di isolamento che sta vivendo Penelope. Ben presto Itaca da turistica meta di svago diventa scenario di smarrimento ed attese (Penelope angosciata attende il suo sposo, poi adirata non si capacita nel non averne notizie) per trasformarsi in posto sicuro ed amato (nell’epilogo finalmente avviene il riscatto e la donna felice e sollevata recupera la propria soggettività ed autonomia). Il gioco di parole del titolo I’(m) SOLAè una chiara dichiarazione d’intenti: isola- Itaca of course, ma anche io sono sola, prigioniera nell’isola in attesa da troppo tempo di un marito assente, io sono sola davanti a tutti i miei interrogativi e smarrimenti. L’azione si apre con due donne (Penelope ed il suo doppio) su una spiaggia: prendono il sole distese sui materassini, con grandi cappelli a falda larga, mimano pose artificiose, si scattano selfiecon movimenti frammentati e compulsivi. Si annoiano fingendo entusiasmo, in un iperattivismo inquietante mentre si fanno domande del tipo “come stai?” che suggeriscono inevitabili risposte che recitate in loop finiscono per diventare mantra ossessivi: “male … lui (Ulisse) non è morto, non mi pensa, non mi ama, non mi vuole, non tornerà, non mi abbraccerà, non pronuncerà il mio nome”. Costantemente in balia dell’attesa, decentrate, non sono protagoniste della propria vita. L’isola metaforicamente diventa estensione dello stato d’animo di Penelope, in cui in una oscillazione temporale continua – dove si intervallano schizofrenicamente tempo mitico e tempo presente- si inganna l’attesa e ci si domanda che fine avrà fatto Ulisse, adottando registri narrativi ora grevi ora pieni di ironia. Penelope alla fine di questo viaggio interiore approda al proprio porto sicuro, che non è il talamo nuziale, ma il proprio centro, dove ci si sente accolti indipendentemente dalla presenza dell’altro e si riscopre la propria creatività” …raccogliere tutti i sogni perduti … dalle idee degli altri compongo stravaganze da salotto e paradossi da spiaggia in questa isola che ora sento mia, dove tutto approda e resta dopo tanto vagare. Io sono qui e sono finalmente presente a me stessa e creo strade, numeri, porte, città in questa isola di incontri e scontri, visioni, danze e tutto ha un senso e trovo pace”. È la fine del viaggio di Penelope che parallelamente al suo compagno Ulisse che naviga in luoghi misteriosi, esplora i meandri della propria interiorità. Penelope si ricentra, mette il silenziatore ai propri fantasmi, fa sì che la parte oscura e la parte mansueta si riconcilino (sul finale le donne mascherate da lupo e pesce si abbracciano in una scena fiabesca) e la domanda che chiude l’atto teatrale “come stai?” con l’inevitabile e tanto attesa risposta “benissimo”, conferma l’incantesimo di emancipazione avvenuto.

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