Il primo sociologo che si incontra sui manuali di filosofia, Talete di Mileto, non studiava l’ecologia solo per indagare il primo principio dell’ambiente che lui riconobbe nell’acqua, ma anche a quanto pare, per scopi più materialistici e benefici: dopo aver individuato la sostanza di una eccezionale raccolta di olive, affittò tutti i frantoi e divenne insolitamente facoltoso. Allora la sociologia serve a diventare ricchi? Secondo Diogene Laerzio, che racconta l’aneddoto dei frantoi, lo scopo di Talete era solamente dimostrare quanto fosse facile fare i soldi e quanto, prima di Auguste Comte, fosse semplice dare prova che filosofia e sociologia hanno sempre camminato a braccetto. In effetti, l’aneddoto ci ricorda che la filosofia di vita non nasce solo a Berlino con l’individuazione della “lebenswelt simmeliana”, ma dalla riflessione sulla vita quotidiana operata da Talete e dalla trascrizione di Diogene Laerzio. E nel quotidiano si fa sociologia parlando di cose che fanno parte di esso, come è comprovabile ne La Massa come ornamento: i divieti di sosta nel traffico urbano, il racconto dell’infanzia, le architetture quotidiane, l’urbanismo, la fotografia, il viaggio e la danza, i libri di successo e il loro pubblico, la biografia come forma d’arte della nuova borghesia, la rivolta del ceto medio, le figure degli attendisti, i gruppi sociali e i portatori di idee, le hall degli alberghi, la Bibbia in tedesco, il cattolicesimo e il relativismo, la crisi della scienza, gli insegnamenti sulla città di Georg Simmel, gli scritti dell’amico Walter Benjamin, Kafka, il mondo di cartapesta, le piccole commesse che vanno al cinema, i film del 1928, il culto del divertimento, la noia e l’addio alla Lindenpassage. In Kracauer, specie nella raccolta di saggi La massa come ornamento, dove la Lebenswelt è definita nel modo in cui la rappresentano le più svariate espressioni della cultura (letteratura, pittura, fotografia, cinema, danza, viaggio), e nell’altra raccolta Strade a Berlino e altrove (S. Kracauer, Straßen in Berlin und anderswo, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1964; trad. it. a cura di D. Pisani, Pendragon, Bologna, 2004), le riflessioni sociologiche e filosofiche si raccolgono intorno al discorso sulla metropoli moderna. Anche in Benjamin, l’influenza simmeliana è rintracciabile in diverse sue opere, ma certamente in misura maggiore tra le figure e le suggestioni della metropoli parigina studiate nel Passagenwerk (Walter Benjamin, Das Passagenwerk, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1982; trad. it. a cura di E. Ganni, I «passages» di Parigi, ed. a cura di R. Tiedemann, Torino, Einaudi, 2000).
Tentare di costruire una estetica materialistica dei linguaggi artistici e sociali, significa necessariamente imbattersi nel lavoro di S. Kracauer, dal momento che, in un certo senso, l’intellettuale tedesco ha già fatto questo tentativo e forse ci è anche riuscito. La sua sociologia ha in effetti due caratteristiche che non possono lasciare indifferenti. La prima è che costituisce la sociosemiotica come estetica materialista, il cui obiettivo dichiarato è quello di operare uno spostamento dalla filosofia della coscienza artistica, che occupa nella tradizione europea e tedesca in particolare una posizione dominante, a una filosofia del linguaggio dell’oggetto sociale. Ecco perché il mio oggetto preferito è non soltanto lecito, ma centrale per l’impresa sociologica che «vede l’arte fuori dall’arte» (In Das Ornament Der Masse, 1963). La seconda caratteristica è che questo primo spostamento ne comporta un altro: un’uscita dal materialismo artistico tradizionale, che è una delle fonti di origine del pensiero di S. Kracauer, ma un’uscita che non è tanto un abbandono, quanto una ricostruzione realistica e contro-ready-made dell’oggetto artistico. È una ricostruzione, che punta a conservare l’aspetto liberatorio del progetto materialistico nello spostamento dall’oggetto al cinema ed è effettuata mediante il passaggio dal paradigma del lavoro (vedi l’analisi degli impiegati) a quello del linguaggio della fotografia nel contesto cinematografico. Il mio oggetto preferito è perciò non solo legittimo e centrale, ma anche già trattato: “Segno della posizione in cui si trova oggi il pensiero capitalistico è la sua astrattezza. Il prevalere dell’astrattezza determina un’area culturale che comprende ogni manifestazione.” (p.49). Al cospetto di una realtà franta e caleidoscopica, non più riconducibile a qualsivoglia unità sistemica o di senso, non si può che operare con i frammenti e i residui dell’essere – che divengono in Kracauer il materiale grezzo, il punto di partenza per individuare e ricostruire le strutture che presiedono e governano il simmeliano mondo della vita (Lebenswelt) –, illuminando quelle “falde dell’essere abitualmente occultate delle quali il mondo è insieme velo e rivelazione”. Le cose stesse non desiderano che essere illuminate e messe a nudo: così, nelle diagnosi sociologiche di Kracauer, come in quelle di Simmel, “una luce (fotografica) che parte dall’interno fa risplendere i fenomeni”. L’introiezione della lezione e dello stile di Simmel emerge con particolare evidenza nell’incipit di Das Ornament der Masse (1927): “l’analisi delle manifestazioni superficiali di un’epoca aiuta a determinare il posto che assume nel processo storico con più sicurezza che non i giudizi che essa ha dato di sé. Questi, in quanto espressione delle tendenze del tempo, non possono rappresentare una valida testimonianza per la struttura complessiva dell’epoca. Le manifestazioni della superficie, invece, in quanto non rischiarate dalla coscienza, garantiscono un accesso immediato al contenuto dell’esistenza, alla cui conoscenza, viceversa è legata la loro interpretazione. Il contenuto fondamentale di un’epoca e i suoi impulsi inavvertiti si illuminano reciprocamente” (p.45, nell’edizione Cue Press). L’opera di Kracauer è notevole e copre i campi della Fabbrica del disimpegno, la storia psicologica del cinema tedesco, un saggio sulla funzione della Storia, un romanzo come Georg, la filosofia del poliziesco, la Parigi di J. Offenbach, l’autobiografia di Gingster, l’inchiesta sugli impiegati, la sociologia della scienza e del romanzo, la fisicità del filmico e il cinema dal 1918 al 1933. La filosofia della medialità di S.K. allora comincerà con l’analisi dell’interlocuzione, che assumerà la forma di una pragmatica della mimesi generalizzata, cioè una pragmatica che permetta di pensare il sociale come attività di interazione. Fuor di metafora, anticipando e aprendo la strada alle tesi che, diciassette anni più tardi, Horkheimer e Adorno esporranno in Dialektik der Aufklärung (1944), in Das Ornament der Masse (1927), Kracauer intuisce che “la ‘ratio’ del capitalismo non è l’intelletto stesso del capitale, ma una logica alterata”, una ragionevolezza annebbiata e deprezzata, che si esaurisce nella costante autoreiterazione della propria architettura ufficiale. “La ratio capitalistica” giunge sciolta da ogni relazione con la ragione e, ignorando l’uomo e il suo farsi creativo, si disgrega nella vuota distrazione. Anche la ratio che opera nella società delineata dalla «narrazione poliziesca», quale risentimento della weberiana “razionalità segnata” (Zweckrationalität), si può dunque comprendere come una enunciazione ante litteram dell’intelligenza funzionale. La critica di Kracauer, dunque, si rivolge non alle eccedenze tracciate nella razionalità tout court, ma alle sue forme deragliate e ai suoi riflessi fotografici sformati, quali affiorano dalla realtà prodotta dalla ratio capitalistica, che ha mutuato e assorbito quella illuministica. La vera “anomalia del capitalismo”, dichiara Kracauer, è che “esso non ottimizza troppo, ma troppo poco. L’intelletto di cui esso è portatore si oppone all’effettuazione della ragione, che parla dell’ontologia umana. Il capitalismo è contro qualsiasi domanda ontologica. Al cospetto del pensiero, “la ratio si blocca in un vuoto e astratto convenzionalismo” e “l’astrattezza dominante”, scrive Kracauer, “mostra che il processo di demitologizzazione” non è ancora stato trasportato verso la sua fine. È evidente l’ampiezza dello spostamento in relazione all’estetica materialistica tradizionale: il sociale è tendenzialmente pensato come confronto con la geometria naturale, come oggetti interni ed esterni, come costruzioni, prospettive, cinema e langeweile. Le prospettive in chiave estetico-materialistica, nel Novecento, sono molteplici e spesso contrastanti: c’è stato, infatti, chi ha voluto attribuire al materialismo sociale funzioni meramente pragmatiche o esclusivamente politiche, chi invece ha riconosciuto in esso implicanze di ordine sociologico e culturologico, e chi infine ha insistito sul fondamento speculativo che giustifica il mondo delle cose nella storia delle genti. Certamente culturologica è l’origine del pensiero di S. K. quanto di Walter Benjamin (determinante, per entrambi, è la comune radice di confronto con Simmel), così come simmeliani ne sono gli esiti. Tutto ciò è ben presente anche nell’estetica di questi autori: i quali tralaltro, hanno in comune un interesse particolare per i problemi sociali dell’arte, vista quasi come il luogo in cui il destino, le contraddizioni e le istanze umane diventano trasparenti, giungendo sino a quello che nel 1974 Peter Burger definisce il contrasto tra T. Adorno e W. Benjamin, nel conflitto tra idealismo e pertinenza della forma-materia. Ne sono una conferma le tracce e i capitoli de La Massa come ornamento, che seguono l’ordine della pubblicazione della Cue Press, dove si vede come S. K. concepisca l’arte negli anni 20-30 alla stregua di un’anticipazione dell’atto della neo-avanguardia (primi anni venti del ‘900): egli ci offre una chiave illuminante per leggere in profondità le nostre azioni quotidiane, che Marcel Duchamp non ha saputo approfondire e sviluppare. Questo di K. è una raccolta di saggi sullo spostamento all’interno del moderno di una “consapevolezza”, di una transizione del ready-made allargato. Uno spostamento che Marcel Duchamp, a partire dal suo profilo scacchistico e di morigerato artista-empirico, non avrebbe potuto concepire. Anche se occorre un piccolo sforzo di introspezione spero di riuscire a persuadervi a leggere questa recensione-saggio da una posizione di empatia piuttosto che di scetticismo difensivo dell’estetica, o direi etica materialista sovrapposta al paradigma del ready-made. La mia premessa, contrariamente a quelle da cui partono gli studi sul ready-made, come simbolo-massa e come simbolo ornamento, è che l’attività di shopping non ha fatto mai capire che fosse la persona che comprava o interagiva col ready-made. L’elemento cruciale, nel rilevare quale potesse essere il potenziale massificato e lo strato di ornamento nella vita moderna, è venuto fuori leggendo Kracauer a confronto con G. Bataille. Egli è stato solo un catalizzatore, dal momento che il fondamento più solido della mia interpretazione sono i classici lavori sul sacrificio di Hubert e Mauss (1964) e in particolare le basi che essi hanno posto per un approccio moderno al sacrificio nella pratica antropologica del dare e avere oggetti. È importante sottolineare, in ogni caso, che quando uso il termine sacrificio mi riferisco solo raramente al senso colloquiale che la parola assume per indicare il sacrificarsi del consumatore. La maggior parte delle volte mi riferisco alle note di una versione dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (di Benjamin, 1936), che prende in considerazione la genialità dispersiva di Marcel Duchamp e soprattutto all’incipit su Holderlin e il finale dell’articolo del 1927 di K. che, indirettamente, parla del ready-made come se fosse un’opera d’arte mediale!