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Martin Parr

Ad oltre quattro anni di distanza dalla sua miniretrospettiva Four Decades (2010) – tesa a delineare, con pochi ma significativi esemplari, un percorso mirante ad un’accurata narrazione visiva del costume quotidiano, quello medio borghese delle società del capitalismo avanzato, ma attraverso un’evidente dose di sarcasmo, secondo una linea che, rinvenendo precedenti illustri in tanti fotografi di reportage sociale del secolo scorso, risale fino al pittore settecentesco suo connazionale William Hogarth -, il fotografo inglese Martin Parr (Epsom, 1952) torna ad esporre presso lo Studio Trisorio approfondendo un motivo già presente nella mostra del 2010 – quello della spiaggia con i bagnanti –, ma svolgendolo, in questa occasione, in rapporto al contesto geografico ove è chiamato ad esporre, come lo stesso titolo The Amalfi Cost lascia presagire, benché le foto non siano in realtà esclusivamente scattate ad Amalfi – ma anche a Capri, a Pompei, a Positano, a Sorrento, nonché nella stessa Napoli -, né siano esclusivamente di ambientazione balneare -, ma si possa trovare, ad esempio, anche una fotografia che ritrae le caratteristiche statuette di Via San Gregorio Armeno dedicate a personaggi dell’attualità, come Papa Francesco o i calciatori del Napoli, o qualche foto degli scavi di Pompei. Queste ultime meglio e più di altre, peraltro, in grado di rievocare la memoria del Gran Tour che opportunamente il testo del catalogo richiama.

Il richiamo al Gran Tour, in quanto tradizionalmente viaggio delle classi alte ai fini della crescita culturale, è però appropriato senz’altro in riferimento all’attività di Parr, che fin dal 2013 ha appunto esplorato certi luoghi al fine di carpire situazioni ad hoc, ma assai meno se impiegato a proposito del “popolo dei lidi”, in quanto manifestazione tra le più tipiche piuttosto della massificazione delle esperienze inevitabilmente associata ad un benjaminiano atteggiamento distratto, tra selfie e partite a scopa, pance al sole e corroboranti nuotate; e tanto più dal momento che il fotografo sembra aver accuratamente selezionato le situazioni specificamente dotate di accezioni leggermente grottesche e kitsch – ma senza lambire mai il parossismo -, sembra aver fatto in modo che risulti una netta prevalenza di personaggi panciuti o comunque non particolarmente conformi agli standard di bellezza – pur senza mai imbattersi nella deformità o nel mostruoso.

La massificazione è parente prossima dell’omologazione, aspetto di cui dimostra di essere consapevole lo stesso Parr quando osserva che «un giorno in spiaggia è uguale in tutto il mondo». Eppure dalla sua ricognizione Napoli esce come eccezione piuttosto che come conformità a tale regola, confermando la sua tradizionale resistenza ad uniformarsi rapidamente ai tratti più tipici dell’omogeneizzazione prodotta dalla modernità e ad abbandonare quei caratteri peculiari che la rendono ancora una particolarità nel mondo – e tale discorso non equivale affatto ad un luogo comune sprovvisto di fondamento! La globalizzazione non ha del resto quanto meno rallentato da un po’ di anni il suo prima apparentemente inarrestabile cammino? E siamo così sicuri che sia davvero il nostro futuro? Gli spazi iperaffollati, ove ogni possibilità di privacy risulta vana, la naturale concitazione e l’immaginabile baccano esprimerebbero così “un modo tutto napoletano di stare al mondo” che rappresenta, in ogni caso, un mondo assai distante dalle immense spiagge di altri suoi progetti degli scorsi decenni, siano esse sudamericane o europee, dell’Europa latina o dell’Europa anglosassone.

Stefano Taccone

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