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Gilbert & George | Sculture viventi

«Alla base della cosiddetta Body art», scrive Lea Vergine nel suo ormai miliare Il corpo come linguaggio. La “Body art” e storie simili (1974), «e di tutte le operazioni presentate in questo libro c’è la necessità (ciò che non può non essere) inappagata di un amore che si estenda illimitatamente nel tempo (la durata), il bisogno di essere amati comunque, per quello che si è e per quello che si vorrebbe essere, con diritti illimitati (di qui la delusione e il fallimento inevitabili): quel che si chiama amore primario». E ancora: «L’aggressività che contraddistingue […] tutte queste azioni […] nasce proprio da questo amore non corrisposto. Pertanto esso viene mutato in amore verso altri se sdoppiati, camuffati, idealizzati, verso il romanzo di sé. L’avidità d’amore si fa narcisismo nel feto che continuiamo incessantemente ad essere (ma essere amati in questo modo è il solo potere che può ridare senso alla vita di tanti fra noi)».

Se questa potente descrizione generale della ormai ottuagenaria critica napoletana si adatta abbastanza bene a casi come Marina Abramovic o Chris Burden, Vito Acconci o Gina Pane; molto meno calzante mi pare invece per vari altri artisti pure inclusi nella antologia del 1974. Su tutti penso ai casi di Gianfranco Baruchello e Marcel Broodthaers, il quale peraltro, in una lettera inviata all’autrice e pubblicata nello stesso libro confessa candidamente innanzi tutto di non saper bene «come contribuire al libro che Lei sta preparando», non nascondendo dunque un certo imbarazzo ed una certa perplessità. Tuttavia anche il duo inglese Gilbert & George, coppia che da ormai cinquant’anni rappresenta, nell’ambito del sistema dell’arte contemporanea, il prototipo per eccellenza delle “sculture viventi” – essere tali, scrivono i due artisti all’inizio degli anni settanta – «è il nostro sangue vitale, il nostro destino, la nostra storia, il nostro disastro, la nostra luce e vita -, pare alquanto problematicamente combaciare con la cornice fornita dalla Vergine nelle battute iniziali del suo saggio introduttivo al volume. Malgrado infatti Gilbert & George – al pari di Marina Abramovic, Vito Acconci, Chris Burden o Gina Pane, e differentemente da Gianfranco Baruchello o Marcel Broodthaers – siano ormai unanimemente considerati parte del movimento della body art, malgrado la valenza estremamente cortocircuitante e straniante che contraddistingue la loro poetica non meno dei bodyartisti di cui sopra, malgrado il loro analizzare con non minore profondità la condizione umana, con le sue paure, ossessioni ed emozioni, la loro prassi appare inequivocabilmente più ironica e meno disperata, aliena dal grado di traumaticità distruttiva che altri bodyartisti esibiscono così prepotentemente. Rispetto a questi ultimi, in apparenza realmente pervasi da un drammatico, catastrofico furore dionisiaco, da una pulsione al naufragio dell’io per loro indomabile, essi lasciano nello spettatore quasi il sospetto che il loro sia più un raffinatissimo simulare il tratto ossessivo-compulsivo, che un effettivo scaricare disturbi e fisime. I due mettono cioè alla berlina una classe sociale di cui magari sono parte anche loro – la borghesia liberale del loro paese -, eppure l’oggetto del dileggio non si identifica tout court con le loro biografie, né i modi che adoperano sono rigidamente caustici o intrisi di moralismo. Anche quando discutono dei temi più scottanti, ruotanti intorno al sesso, alla razza, alla religione e alla politica, lo fanno sempre con una quid di leggerezza che li allontana dalle fattezze conturbanti della body art dell’immaginario più classico.

Osservando con gli occhi pieni delle performance aurorali il ciclo di ventuno immagini a parete, spesso di grandi dimensioni, della personale in esame, The Beard Pictures – che celebra appunto il cinquantennale percorso del duo – non si può che rimanere colpiti dalla frattura sul piano estetico che in questi cinque decenni si è prodotta, malgrado la continuità della traccia di fondo, data dal loro costante apparire al centro della scena e dal loro essere implicati in situazioni costantemente costruite sull’incongruità quanto sul rapporto di simmetria tra i due personaggi che tale condizione di incongruità condividono sempre e comunque equamente. Non è tanto – ed anzi a dirla tutta c’entra poco o nulla – la circostanza per cui all’origine Gilbert & George prediligono la performance, mentre ora puntano sulla foto estremamente elaborata con mezzi digitali. Il punto è che alla fine degli anni sessanta tutto è in loro estremamente più essenziale: basta partire dal look tipico del rispettabile gentlemen britannico e giustapporvi un piccolo, ma efficace elemento di spiazzamento – faccia e mani dipinte d’oro, intonazione di una canzone… -; oggi invece tutto appare mille volte più complesso ed articolato: colori intensi ed irreali, deformazioni anatomiche, elementi verbali, finti e giganteschi timbri, giochi visivi a perdita d’occhio che, nelle pur sapienti ed elaborate combinazioni di forme, linee e cromie, finiscono per restituire un’impressione d’insieme che sa di ipertrofia.

Questi lavori, scrive lo scrittore inglese Michael Bracewell nel testo del catalogo che accompagna la mostra, «sono violenti, inquietanti, grotteschi, spaventosi e folli. Mostrano un mondo visionario di paranoia, distruzione e pazzia. Gli strani e maliziosi colori dei loro paesaggi insidiosi, distrutti e assurdi affrontano lo spettatore con inarrestabile aggressione». E ancora: gli occhi dei due artisti autoritrattisi «sono ombreggiati e stranamente ingentiliti. Ironici mutanti esploratori e sentinelle morte. Sembrano guardare, dentro e attraverso, lo spettatore. Sembrano posseduti e seriosi. Sembrano come se i loro spiriti avessero lasciato i corpi. Sembrano severi, assurdi, imprigionati, beffardi e beffati». Eppure nessuno spettatore può provare un autentico spavento, né rimanere seriamente turbato: oggi come ieri a prevalere è infondo l’umore ludico, un ludico spinto ed estroso, ma costantemente entro i suoi confini. È come se gli artisti celebrassero infondo un grande carnevale, un imprevedibile, proteiforme e sempre giocoso mascheramento imperfetto, giacché sotto la maschera si deve sempre riconoscere l’identità di base che, con buona pace del nostro Pirandello, è una anche se può prendere centomila forme particolari. Queste ultime provengono però sempre da una medesima matrice.

La recensione a firma di Stefano Taccone è pubblicata sul numero 265 di Segno

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