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Giorgio Celin: solitudini in penombra per Bacchini malati

La Babele di Giorgio Celin getta uno sguardo disincantato sul purgatorio contemporaneo e rappresenta la prima tappa – e forse l’unica – di un ideale trittico di mostre che vogliono rileggere, in chiave personale e in ordine sparso, le regioni ultraterrene alle quali sono dedicate le cantiche del poema dantesco. Il pittore evoca uno scenario di solitudini profonde; penombre si popolano di figure trasognate, di una giovinezza estenuata, afasica, idealizzata in una plasticità estetizzante, memore di certo Simbolismo fuori tempo. È il ritratto irreale di un certo spleen del presente: a partire dall’eco biblica del crollo della torre con la cui erezione gli uomini osarono sfidare il cielo, offre, dopo il disastro e la dispersione della lingua, scorci esangui di un’umanità teatrale, teatralizzata, in posa suo malgrado, per la quale il desiderio è il motore di una comunicazione divenuta quasi impossibile.

Colombiano di origine ma naturalizzato italiano, Giorgio Celin è un pittore schivo e ritirato. Dopo cinque anni di vita a Roma, “Babel” è la sua prima personale, dopo una precedente monografica di acquerelli tenutasi a Napoli e una in Spagna. Dal 15 settembre al 14 ottobre, la mostra raccoglie nello spazio nero della Coronari 111 Art Gallery sette oli su tela, una pittura levigata e ombrosa. Un linguaggio semplice cela i simboli dietro un approccio narrativo che invita l’osservatore a una partecipazione empatica. I protagonisti dei racconti pittorici di Celin, interconnessi per un identico sentimento di stallo e remissione, eppure remotamente distanti, come attori muti di una conversazione spezzata, di una storia disarticolata, sono giovani assiepati nella massa indistinta degli utenti dei social network, purganti in attesa nelle pieghe degli scenari urbani di un confuso inizio di millennio. Persi in una folla senza direzione, figli della disseminazione, della distruzione dei muri e delle ambizioni, della dispersione del senso, della perdita di valori, punti di riferimento, ideologie, inermi di fronte al rinfocolarsi di nuovi fondamentalismi, al riaprirsi di ferite mai rimarginate, spinti dalla risacca amara della discriminazione, dello sfruttamento e del sopruso.

Antico e contemporaneo, narrativo senza mai essere pop, Celin si fa cantore di un interstizio e una cesura, di una dispersione totale e della ricerca di un’identità dopo il crollo, in una società che cambia, senza chiaroveggenza o facili ottimismi. L’immersione nella storia e nelle stratificazioni artistiche della Città Eterna arricchiscono di suggestioni i lavori del pittore, in un confronto diretto non solo con modelli del passato ma anche con un’ambizione di durata, di profondità. La complessità dei temi e la ricchezza dei rimandi si condensa tuttavia in opere di dimensioni contenute, niente affatto monumentali nel formato o nella resa. Tra dimensione privata e denuncia pubblica, rappresentazioni che ricordano antichi martiri si specchiano in interni domestici di case senza pretese. Spesso l’ispirazione si nutre di eventi pollici e sociali, di notizie attinte dalla cronaca. E così, accanto ai “Bacchini malati con lampada Ikea”, al venditore di rose e all’adolescente balthusiana che si strugge nella sua cameretta per il paradosso di un’iperconnessione spersonalizzante, troviamo dipinti che affrontano apertamente temi politici e sociali, come la persecuzione degli omosessuali in Iran o in Uganda oppure il caporalato, che spesso si esercita sulle spalle dei migranti. Il tutto raccontato senza retorica, ma con linguaggio, qualità e caratteristiche espressive proprie della pittura, che smussa la realtà e si fa altro. “La tecnica è importante – spiega Giorgio Celin – ed è importante restituire alla tecnica la possibilità di affrontare un discorso contemporaneo e anche politico”. Nella convinzione che non ci sia forma efficace senza ragionamento e sentimento.

 

Giorgio Celin – Babel

fino al 15 ottobre 2017

 

Coronari 111 Art Gallery

Via dei Coronari, 111, 00186 Roma RM

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