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Mark Wallinger

Prossimo all’anniversario trentennale, il Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci battezza l’importante annata inaugurando la prima mostra italiana di Mark Wallinger, artista inglese e di indiscussa fama.

Non è una coincidenza la scelta di un rappresentante della Young British Artist, movimento nato a Londra con Charles Saatchi proprio una trentina di anni fa, catalizzando un indirizzo storico-artistico influente tutt’oggi; il parallelo vuole dunque rimarcare l’importanza e la lungimiranza di aprire un Centro dedito al contemporaneo nel cuore della penisola, a fungere da pacemaker culturale per uno Stato in affanno. Se all’esordio il gruppo YBA, capitanati da Damien Hirst, puntava all’effetto shock esacerbando la lezione Dada e Postmoderna in tutte le forme (in)proponibili e immaginabili (si pensi al debito maturato da Maurizio Cattelan verso il movimento inglese), attualmente la permeanza di Internet nella vita quotidiana ha portato un deciso disincanto, una saturazione all’insaziabile voglia di immagini, e quel fervore e raccapriccio non c’è più, o meglio, non funziona più. Mark Wallinger possiede il vantaggio di essere meno triviale dei suoi compagni di scuola, e per questo tempestivamente più adattabile geograficamente e temporalmente, in sostanza è un gusto “traducibile” e sempre valido. Non è sulla tematica che vigeva l’elemento sorpresa del suo operato, come avveniva negli altri suoi colleghi (ad esempio il sesso per Sarah Lucas o l’orrore per i fratelli Chapman), piuttosto nella magnificenza identitaria, annullando definitamente la distanza tra autore e opera e concependo prima degli altri Youngs che l’Artista è un Monumento. In quest’ottica va letta l’installazione più rappresentativa della mostra, Ecce Homo, (1999) la prima scultura a occupare lo spazio del plinto vuoto di Trafalgar Square, prototipo anatomico completamente bianco coronato da un lo spinato d’oro zecchino. L’Ego e il Divino, in salsa British.

Proseguendo, appare sempre più chiara la sacralizzazione del proprio Io, dapprima con l’opera fotografica Passport Control (1988) e immediatamente di seguito i pittorici Id paintings (2015-2016) e Self Portraits (2007-2015). La figura umana dirada in crescendo, annullando prima la riconoscibilità facciale, quindi quella gestuale, fino allo stereotipo per eccellenza, la lettera “I” (la versione inglese di “IO”) simbolo insignificante nella forma quanto (pre)potente nel concetto, addolcito da una gustosa ironia, presente già in Passport, che ritorna nelle opere video MARK (2010) e Shadow Walker (2011), quest’ultimo quasi un omaggio a J. M. Barrie.

Un percorso espositivo, dunque, che traccia DIO & IO e giunge al NON-IO, perchè l’atmosfera della sala successiva è mortuaria, un olocausto, nella spietatezza numerica dell’installazione site-specific (ripresa da Steine proposta nella galleria carlier | gebauer di Berlino nel 2010) di Pietre Prato (2018) dove persino le foto amatoriali degli sconosciuti addormentati, The Unconscious (2010), perdono la loro aura di burla da gita scolastica e diventano cadaveri onirici.

Il finale è il sogno, o forse l’Incubo, con due speculari installazioni video: Sleeper (2004), l’inquietante nottata presso la Neue Nationalgalerie di Berlino trascorsa dall’artista in costume da orso, quasi rievocante il culmine di tensione del film Shining di Kubrick, e Construction Site (2011), visivamente freddo e struggente nel suo loop lento e meccanico, pare intavolare uno scenario da Hollywood Squares; difficile scovare una miglior rappresentazione dell’Inferno.

Articolo pubblicato sul n. 267 di Segno

Mark Wallinger Mark

prorogata fino al 10 giugno

Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci

Viale della Repubblica 277

59100, Prato

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