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Voce … compagni di/verso

Gabriele Perretta

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di/verso

dedicato ad Aria

Decidemmo di riposarci su un prato arrossato dai numerosi papaveri che spuntavano dalla terra e  Vladimir, per la prima volta durante quel viaggio, estrasse una specie di violino e cominciò a suonare una strana e malinconica melodia che sembrava uscire da una gola stridente: note ugolate e profondamente legate da un’intima essenza di dodecafonia e compenetrazione.

Sembrava quasi che ogni cosa intorno a noi rispondesse a quel richiamo e, incredibilmente, nuovi rumori nascevano e crescevano a quel suono. Irine prese a danzare con veemenza e i suoi passi pesanti non lasciavano scampo a nessun fiore e a nessuna buca di solfatara o forma di vulcanizzazione ai suoi piedi; io osservavo stupito la scena. Quella musica era così assillante che riusciva a creare uno stato d’atarassia, eppure allo stesso momento riusciva a scatenare forti emozioni, voci a cui Irine si lasciò assoggettare. I passi continuavano a crescere e sembravano quasi segnare un percorso che s’infilava tra alcuni fitti  crateri di melma grigia e io li seguii, mentre gli altri rimasero in quel tratto solfataro. L’ambiente a poco a poco divenne caldo: grosse pietre salmastre si diradavano ai bordi di un rigagnolo e il terreno era per lo più fangoso e coperto da foglie marroni, cadute da spogli alberi. Le voci musicali che ora sentivo distanti erano rimpiazzate da un continuo bollire e numerosi uccelli rendevano affollato l’addentrarsi in quell’ambiente, mentre un gelido soffio di vento agitava i fumi sopra la mia testa. Fu lì che incontrai, seduto su un masso vulcanico, che contemplava il rigagnolo lavico, un Baritono: un essere dalle fattezze di una botola di carne e d’uomo, sul cui capo vi era un cappello che conteneva rullini di  sonetti. Vedendomi sembrò spaventarsi e io, accorgendomene, avanzai più adagio e quando gli fui vicino dissi:
“Non vorrei disturbarti, ma ho visto che sei qui solo col tuo monologo, posso accompagnarti nel canto?”

Il baritono girò la testa e guardandomi stupito rispose:
“Purtroppo non puoi fare nulla. La mancanza di eco sta prosciugando il bacino del suono e io non ho più futuro in questo mondo, presto anche il fumo nella mia Aria sarà prosciugato e io morirò prima del prossimo autunno e neppure la primavera, che prima mi appariva tanto spiacevole,potrà più tentare di risvegliare la mia ugola”. 

Notai che sulla sua testa vi erano alcune gocce di zolfo, lo stesso zolfo che scorreva nei rigagnoli, e allora capii che tra quell’essere e quel luogo vi era una profonda simbiosi, una simbiosi che però era scandita con l’arrivo dell’estate; mentre facevo quelle considerazioni la creatura riprese a cantare: “Aria! Perché la mia natura è profondamente legata all’Aria, a questo luogo fatto solo d’Aria! Perché non mi è dato vivere una stagione e con essa il risveglio del bel canto e della gioia di vivere? Che io sia capace di vivere solo l’inquietudine del rumore e di questo freddo che mi circonda e mi penetra dentro?Non so cosa sia l’estate, ma stando nel caldo, vorrei tanto poterla appena sfiorare e cambiare guscio,almeno per una volta. Tu che sei capace di gioire per quello che a me reca morte,raccontami la voce, quali colori si stendono fra le voci e la terra d’estate? Quali richiami, quali versi e quali accenti rinvigoriscono la vita? Le voci che io conosco non vi saranno di certo e neppure il suono degli archi caduti a terra, per non parlare delle condense di suoni che rimangono vuote al risveglio degli animali”.

La tosse canina si impadronì di me e, mentre osservavo lo sguardo lamentoso di quel baritono, cominciai a descrivere un qualcosa che anche a me pareva un suono lontano, almeno fino a quel momento. 

“Il cielo si colora d’azzurro e il sole picchia forte sui rami che hanno resistito al freddo; gli animali si svegliano e le loro pelli sono più colorate che mai, mentre pietre,calcinacci vesuviani e frammenti di colline mediterranee si stendono per terra e cadono sulla fertile limacciosità di quella striatura di vesevo, arida ma vitale. Rossicce le pietre e rossiccia la faccia del canto, mentre boati si comprimono dietro cespugli segreti e un immenso accordo si compone in un ciclo che va a chiudersi. Di notte luci serene di lucciole e tenui raggi lunari portano il messaggio di un caldo vento che soffia dai deserti e gli animali notturni celebrano le stelle”.

Il baritono mi ascoltò con occhi spalancati e io stesso rimasi stupito dalla descrizione che riuscì a dare, come se non avessi più potuto vivere la primavera e l’estate. Rimasi ancora un po’ con il mio nuovo canto fino a quando lui prese l’inevitabile riverbero per espandersi: “Grazie per il tuo canto, giovane amico, giovane voce; in un altro luogo anche tu devi essere stato uno di noi e spero di poter riabilitarmi anche io come corista, così da poter  vibrare i prodigi del suono che mi hai descritto. Almeno posso dire di aver consapevolezza della morte della voce e piena preparazione della fine della poesia, purtroppo non posso dire altrettanto della vita,ora basta, è giunto per me il tempo di saltare sui dittonghi del fumo e dei crateri della Solfatara. Grazie di nuovo, addio”.

Dopo quelle parole si alzò dal masso su cui si era seduto e pian piano prese a incamminarsi sulle pozze di fango e zolfo e io, deciso a voler aiutare quella creatura, per il poco che avessi potuto fare,lo presi per mano e lo portai dai miei compagni poeti. Appena giunse nella radura ormai gremita di fiori e luci prepotentemente primaverili, il Baritono conobbe il sapore delle note e poi, sorridendo verso di me, si dissolse in un turbinio di fumi giallastri e per un attimo un gelido vento investì me e i miei compagni di/verso. 

Riproduzione vietata © Gabriele Perretta. Tutti i diritti riservati
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