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Per aprire una finestra sulla 9a Biennale di Berlino

Redazione

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Molte recensioni uscite sulla Biennale di Berlino ne hanno parlato come di un’esposizione dedicata all’era post-internet. Mi piacerebbe partire proprio da tale presupposto per riflettere se sia ancora necessario dare definizioni di questo tipo. È veramente importante incanalare all’interno di uno stereotipo gli artisti selezionati e dire che sono influenzati dalla cultura di internet, dai meme, da YouTube, dalle Gif, dall’uso di Photoshop? Attualmente, non lo siamo, forse, tutti? Non si tratta, allora, semplicemente, di arte contemporanea?

Probabilmente avrebbe più senso sostenere che The Present in Drag sia una mostra sulla generazione dei nati negli anni Ottanta, in Occidente, dato che la maggior parte degli artisti presenti si possono vedere come facenti parte di questa categoria. È una mostra generazionale, che è riuscita a rappresentare la nostra cultura contemporanea in maniera esemplare, con un’estetica forte, travolgente e con contenuti azzeccati. L’elegante, “minimal-trash” dei lavori presenti mette sì, in luce, l’ambito tecnologico e la nostra continua connessione ad esso, ma non come qualcosa di specifico e di definito, bensì come parte integrante della nostra sfera quotidiana. Sono opere che non parlano solo di internet e tecnologia. Il dispositivo tecnologico non prende mai il sopravvento sul contenuto. Sono progetti che raccontano di noi e della nostra società.

È interessante notare che la maggior parte degli articoli pubblicati sulla nona Biennale di Berlino sono di testate straniere. Alcuni molto negativi. Altri molto positivi. Una via di mezzo praticamente non esiste. Questo di solito succede quando ci sono esposizioni che si caratterizzano per una scelta curatoriale forte e d’avanguardia, più o meno la stessa cosa accaduta quando la sfera della Pop Art prese piede negli anni Sessanta. Si creano divisioni e fratture. Un dinamica che quando avviene, rende il dibattito intellettuale molto fresco e stimolante.

Il collettivo newyorkese DIS, composto da Lauren Boyle, Solomon Chase, Marco Roso e David Toro, non è un gruppo di curatori. É un insieme eterogeneo di creativi, che si muove online grazie alla redazione del sito web DIS Magazine, incentrato sul connubio tra cultura pop e institutional critique.

La loro estetica è pulita e cangiante allo stesso tempo. I loro contenuti spaziano dall’arte, alla moda, alla musica, alla brand economy. Anche la loro Biennale è stata così.

Tra gli aspetti più caratterizzanti si ponevano l’organizzazione degli spazi e la cura degli allestimenti. Molto scenografici, immersivi, costruiti ricreando delle quinte architettoniche: quasi dei set cinematografici. Il superfluo, ciò che circondava le opere, diveniva parte della dinamica di fruizione.

Il pubblico, di volta in volta, si trovava, così, come se fosse davanti al proprio laptop: aveva la possibilità di camminare, girarsi, e aprire una finestra ideale, costituita, però, solamente dalla propria visione. Non si generava un’interazione attiva. Si dava luogo, semmai, a un rapporto tra lo spettatore statico e uno schermo avvolgente e immersivo. Non è, quindi, un caso che la maggior parte delle opere fossero dei video.

Un esempio di questa processualità di fruizione è il lavoro di Anne De Vries, Critical Mass: Pure Immanence, focalizzato sugli spettacoli di massa e sui concerti trance. Bisogna pensare ad un percorso: lo spettatore inizialmente si imbatte in un modellino in scala che rappresenta uno di questi raduni, successivamente si sposta e, a sorpresa, perché nascosto, incontra uno schermo gigante, immergendosi in questo modo in un evento vero e proprio. E’ una estetica nerd, bassa e popolare, simultaneamente giocosa e tecnologica, che ci rappresenta.

Altro approccio ambientale è dato dall’opera di Cécile B. Evans, What the Heart Wants, che occupava la parte centrale del KW. Incentrato sull’esplorazione del futuro e sulla condizione umana, il video era situato all’interno di una stanza piena d’acqua, sulla quale giaceva una piattaforma dove il fruitore era invitato a camminare e sedersi. L’audio, immersivo, era amplificato dall’utilizzo di apposite cuffie. Il video, dalla classica estetica 2D-videogioco, era un connubio di elementi surreali incarnati da orecchie e barattoli di maionese volanti, intrecciati ad elementi documentaristici.

Army of Love, di Alexa Karolinski e Ingo Niermann, è un ulteriore caso di questa tipologia di allestimento a finestra, che, in aggiunta, include una componente fortemente emotiva. Il video intende riportarci ai tempi prima delle app di incontri erotici come Tinder e Grindr. Secondo i due artisti, queste app ci hanno dato la possibilità della liberalizzazione ma non della liberazione dell’amore, trasportandoci in un’era nella quale si è sopraffatti dalla sua mercificazione e dalla solitudine. La messa in scena, all’interno di un corridoio di passaggio, ci introduce in una stanza rossa, dove si viene accolti da una parete incurvata in cui ci si può adagiare e sentirsi sopraffatti dalle immagini.

In esposizione anche altri artisti qualitativamente molto elevati come Hito Steyerl e Jon Rafman. L’opera di quest’ultimo, però, non era in funzione. Un cartello avvisava che il lavoro era spento per diatribe con il comune. Un peccato, dato che l’immagine dell’installazione è una di quelle più pubblicizzate della Biennale. Una perdita, visto che la realtà virtuale senza tecnologia non ha senso.

I due bellissimi video di Ryan Trecartin e Lizzie Fitch (e, aggiungerei, anche tutto il loro excursus storico) vanno visti come un’anticipazione dal punto di vista sia di allestimento, sia di contenuti, che oltremodo di estetica, di tutta la biennale in sé. La postproduzione, il montaggio altamente alternato, l’idea di YouTube, il mondo del prosumer, l’estetica trash/pop, il branding, i colori forti e accesi, i personaggi ambigui, sono elementi che ricorrono in tutte le diverse sedi della Biennale: l’Academie der Kunste, ADK; l’European School of Management and Technology, ESTM; The Fuerle Collection, TFC; Institute for Contemporary Art, KW.

Insieme a queste tematiche, in Biennale erano presenti anche la questione del gender, quella ambientale e quella dell’immigrazione, quest’ultima ben rappresentata dal bellissimo video di Halil Altindere, Homeland. Si tratta di un filmato realizzato in collaborazione con il gruppo Hip Hop Tahribad-i Isyan e impostato come un video rap.

Degna di nota, non tanto a livello estetico, quanto contenutistico, anche l’installazione di Camille Henrot, Office of Unreplied Emails, creata in collaborazione con il pittore Jacob Bromberg. La Henrot, che ci ha abituati a video incalzanti e ben pensati, questa volta ha creato un progetto dove il lavoro si materializza nella risposta a molte delle newsletter ferme all’interno della sua casella di posta. Si tratta di quelle associate alle richieste di denaro e mandate con toni aggressivi, a cui lei ha replicato grazie ad una calligrafia elegante e a dei toni ironici. Le e-mail, solitamente pensate come leggere e aeree, sono state, così, rese materia pesante e tangibile. Le tele dipinte, invece, intendevano rappresentare in maniera visiva i soggetti delle newsletter.

Il catalogo della Biennale di Berlino si pone come una raccolta di testi teorici. Anche questi molto interessanti e di alcuni autori importanti. Esempi sono Boris Groys, Wark McKenzie, Meredith Meredith; inoltre, Rem Koolhaas e Hans Ulrich Obrist in dialogo con il collettivo åyr. Quest’ultimo è l’unico caso che ha visto delle presenze italiane, due giovani artisti di Napoli residenti a Londra. Il loro progetto consisteva in una sala dedicata alla relazione tra pubblico/privato, alla continua connessione al wi-fi, all’economia delle sharing rooms, in stile Airbnb. Qui il pubblico poteva dormire e mettere in carica gli smartphone. Un degno esempio di tutti i contenuti di The Present in Drag.

Ho visitato questa Biennale con Yamada Hanako, artista e amica. I dialoghi con lei sono stati fruttuosi per questo articolo.

Giada Pellicari

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Tags: Biennale di Berlino Germania

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