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Gianni D’Urso “Gianni, l’ottimismo è il profumo della vita”, a Lecce: tra disincanto generazionale e cortocircuiti

Dal 22 luglio al 4 agosto 2019, il collettivo FAC – Giuseppe Amedeo Arnesano, Alice Caracciolo e Caterina Quarta – ha curato la mostra personale di Gianni D’Urso “Gianni, l’ottimismo è il profumo della vita”, organizzata all’interno dello Spazio A, casa-studio di Alessia Rollo, a Lecce. Lo spazio è stato inaugurato nel gennaio 2019 come ambiente di ricerca su progetti in corso d’opera e quella del giovane artista di Cisternino, residente a Latiano, è stata la seconda personale ospitata all’interno dell’area domestica in Viale Lo Re, nel centro storico del capoluogo salentino.

Il lavoro di Gianni D’Urso utilizza installazioni e atti performativi che viaggiano sul filo labile, ma costante, del paradosso, dell’ironia talvolta parossistica, sebbene ovattata da un gusto beffardo e amaro che si stempera in uno stile ricercatamente infantile e malinconicamente scanzonato.

La mostra muove già sulla porta d’ingresso della casa-museo dove, a un metro dall’uscio, campeggia un’amaca sospesa sul soffitto. Nel giorno della presentazione ufficiale, essa accoglieva un performer che, durante l’evento, canticchiava a ripetizione ‘I Don’t Want To Wait’, sigla di Dawson’s Creek, l’iconica serie tv che, a cavallo tra i due millenni, ha segnato i teenegers attraverso un nuovo modo di approcciare il tema adolescenziale nell’ambito del mainstream. Fin da subito, l’artista dichiara così il proprio intento rievocativo, non semplicemente ri-attualizzando topic propri del suo retaggio giovanile (e quello dei suoi coetanei), bensì collocandoli nel nostro tempo, affinché lo spettatore possa assorbirli con gli occhi dell’oggi, in un format grottesco che cela in un sorriso disorientato un senso di disagio e di rimpianto. Dawson’s Creekè un artificio retorico, un’allegoria utile a suggerire il significato dell’intero lavoro. Fulcro del percorso logico dell’autore è rappresentare l’inganno che le illusioni di fine secolo hanno perpetrato ai danni delle donne e degli uomini nati a cavallo tra gli anni ‘80 e ‘90 del ‘900, i quali, sedotti dalle aspettative mirabolanti di un futuro mai così lusinghiero, sono stati abbandonati al disincanto di una società e di un’economia che si sono liquefatte, compresse da un neoliberismo abile a premiare il cinismo e la spietatezza prima ancora del merito e delle umane virtù. 

In tale accezione va interpretato il titolo stesso della personale. “Gianni, l’ottimismo è il profumo della vita” cita uno spot della catena di articoli per l’elettronica UniEuro datato 2001, particolarmente noto in quel periodo e immediatamente riconoscibile per l’uso di tonalità oltremisura entusiastiche: siamo in pieno clima di neo-modernismo, il Terzo Millennio porta con sé la speranza che, dietro la mastodontica opera di tecnologizzazione in atto, vi siano i germi di un nuovo mondo, accessibile a tutti e capace di generare benessere, ricchezza, opportunità. Testimonial della pubblicità era Tonino Guerra, poeta e sceneggiatore scomparso nel 2012 che lavorò con registi del calibro di Michelangelo Antonioni, Elio Petri e Vittorio De Sica. Gianni D’Urso, giocando sull’omonimia tra il suo nome e quello del personaggio mai mostrato nello spot (con cui Tonino Guerra parla al telefono), realizza un cortocircuito semiotico, frammenta la percezione di quel futuro saturo di fiducia e fervore, ne conserva la nuancetrionfalistica, ma la scarica nel sistema odierno con cruda semplicità, innescando un effetto amaramente ironico, svelato senza la necessità di alcun supporto didascalico e ribaltando il significato.

Procedendo verso il corridoio, un pallone sgonfio ingombra l’androne. A fronte di un’estetica affatto impattante nel lavoro concettuale dell’artista, fa popout in modo subitaneo l’intento simbolizzante dell’artista, che metaforizza in un pallone sgonfio una serie di stilemi focali nella sua opera di narrazione dello shock generazionale: il pallone è l’emblema più pregnante del fanciullo, della leggerezza, del gioco; un emblema che viene concesso al pubblico come una carcassa putrescente, svuotato del succo vitale, privato della sua ragion d’essere: assieme al pallone, si è sgonfiata ogni fantasticheria di progresso, l’utopia di una democratizzazione sociale ha palesato la propria falsità, restano da raccogliere i cocci di ciò che resta, di ciò che realmente è diventato quel futuro, questo presente.

Infine, la mostra conduce verso la camera da letto, alludendo neanche troppo velatamente a una dimensione onirica, che è quella dei sogni, ma anche delle paure incalzanti. La notte è un momento di riorganizzazione delle idee, la fase del giorno più appropriata per fare i conti con se stessi e col resto del mondo. La mostra pone in essere una sorta di viaggio a ritroso, che si apre con l’adolescenza di Dawson’s Creek, procede con la rappresentazione fanciullesca del pallone e culmina nella stanza matrimoniale che, nella poetica dell’opera, non può che essere quella dei genitori. Eppure, la configurazione genitoriale trova un elemento dissonante in due poster, attaccati in testa al talamo, due locandine di chiara matrice giovanile, la cui grafica strizza l’occhio a una contestualizzazione anni ‘80: uno dei due poster reca la scritta “Madre ho tanta paura”, suggerendo nello stile l’immaginario di Guerre Stellari; sull’altro c’è scritto “Padre non ho voglia di lavorare”, secondo un formalismo caro ai videogiochi di vent’anni fa o giù di lì. Come suggerisce lo stesso D’Urso, la scena ammicca a una sorta di Sacra Famiglia in salsa profana, con mamma, papà – il letto – e figlio – le due locandine. Le frasi dei due poster, nella loro intenzionale banalità, adombrano un sottobosco di isterie, di fobie, di incertezze che quel mondo futuribile e carico di promesse – quello di Tonino Guerra e del profumo di ottimismo – ha disatteso. Lo smarrimento si arrocca fra le braccia dei genitori, viene ricondotto nella suggestione – suggerita, non mostrata – di un bimbo che chiude gli occhi e serra le palpebre nell’unico luogo sicuro che egli conosce, ma che ha smesso di esistere. Resta il baratro, resta la perdizione di una generazione orfana del proprio tempo, dimenticata da un presente che non offre sufficienti risorse per metabolizzare la disillusione.

La mostra personale di Gianni D’Urso, dunque, fugge da qualsivoglia pretesa di autoreferenzialità e non dimostra, volutamente, particolare sensibilità estetica. Qui la sfera concettuale è il filo rosso di tutta la mostra, nelle installazioni e nell’atto performativo. Al contempo, D’Urso inscena un’arte accessibile, comprensibile in maniera immediata, che non impone uno sforzo creativo di destrutturazione e ristrutturazione del pensiero. L’elemento ossimorico del materiale e dell’ideale, il paradossale, l’ironia e l’autoironia non sono orpelli estetizzanti, bensì significanti imprescindibili per raccontare fragilità che sono quelle dell’artista e di una generazione intera, precaria funzionalmente, cognitivamente, emotivamente. La potenza del messaggio schiaccia la forma, il gusto per il bambinesco mortifica le pretese di appariscenza formale, la ricerca del buffo e del ridicolo decontestualizza qualunque intento solenne. La comunicazione è asciutta e, in funzione di tale sobrietà, ricca, molteplice, mentale senza scadere nel verboso. Un’opera che potrebbe racchiudersi in una sola domanda, e nella risposta che qualunque under 40, a modo suo, saprebbe fornire: come immaginavamo il 2019 a inizio millennio?

Mostra Personale di Gianni D’Urso “Gianni, l’ottimismo è il profumo della vita”

A Cura del Collettivo FAC

Mostra conclusa il 4 agosto 2019

Spazio A – Viale Francesco Lo Re, 22, Lecce

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