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La verità a teatro

Atto primo 

Il signor Ponza e sua suocera, la signora Frola, scampano al terremoto nella Marsica, in Abruzzo. Entrambi si trasferiscono presso una cittadina che, con l’arrivo dei due, entra in crisi, divorata dalla curiosità: Ponza nasconde in casa la moglie, impedendole di incontrare la madre? Il consigliere Agazzi, recatosi dal prefetto, avanza un tentativo di chiarimento: e Laudisi rivela quanto sia complicato rivelare la verità.

Il primo atto di “Così è (se vi pare)” si apre con il caos, la fuga da esso e il rifugio nell’ordine, il quale, essendo tale, è caratterizzato dalla precarietà, soprattutto morale. La precarietà, nel corso degli atti, si intreccerà con se stessa, costruendo una scena generale talmente torbida da costringerci a spalancare gli occhi per non rimane intrappolati al suo interno.

Ora, mettiamola in questo modo. Il signor Ponza e la signora Frola sono la parvenza di un presunto teatro greco nell’area archeologica di Akràgas, duplice quanto un miraggio, che getta nella curiosità la gente; la signora Ponza, la moglie nascosta di cui in città si mormora, che è anche frammento dell’illusione, è invece il vero teatro, sepolto da qualche parte sotto Agrigento, il quale, similmente al dramma, prima del sipario, forse per rassegnazione, dichiarerà a tutti (un giorno) di essere ciò che si crede, perché, in fondo, così parla la verità. Anche se non sappiamo cos’è, sicuramente sarà qualcosa di importante.

Atto secondo

Il 10 ottobre è stato un giorno atteso. Atteso esattamente da un mese. Da quando la mattina del 10 settembre scorso fu diffusa la notizia del (presunto) ritrovamento. Da quando la conferenza stampa fu annullata e rinviata. Da quando un tarlo si è messo a scavare nella mente, come un archeologo, a colpi di ritmici “se…”: e se fosse il teatro?, e se non lo fosse?, e se…

E in un mese è accaduto di tutto. Tutto ciò che un teatro può contenere. Con un gran via vai dagli eisodoi. Con un gran brusio in sala. Con il sogno di ritrovarsi, in città, “proprietari” di un bene inestimabile.

Affianco c’è stata la controparte. Di gente che ha lamentato l’attesa, che ha sospettato lo scherzo, che ha svelato meccanismi, che ha formulato domande, e attende che la maschera venga slacciata. E si arrivi finalmente alla verità, ripulendo la vicenda insozzata da altri “se…”: e se i resti non ci fossero?, e fossero al mare?, e se… Comunque vada, chi è bravo indaghi sul perché proprio questo periodo storico.

Ritorniamo alla realtà, certo. Quello che è accaduto il 10 ottobre, però, è soltanto un piccolo passo. Il tono è stato dimesso. Parecchio. Le bollicine iniziali, che davano magiche certezze, sembrano sgonfiate. Nessuna verità, dunque. Banchi di nebbia sì, quanti ne vogliamo. I quali resteranno almeno per altri due mesi, cioè fino a quanto gli scavi, finanziati con fondi del Pon Cultura 2014/2020, porteranno alla luce almeno una porzione leggibile e utile all’identificazione.

La fortuna dentro tale vicenda, spero non temporanea, è questo ottobre agrigentino, caldo quanto un’estate al suo inizio, nonostante le piogge notturne, che rende possibile il lavoro agli archeologi. Il direttore del Parco afferma: “Saranno scavi didattici, con fruizione aperta. La città non deve più sentirsi esclusa dai beni”. Il sindaco parla di economia e prospettiva, e incrocia le dita. L’assessore regionale è entusiasta.

La conferenza stampa avviene a pochi chilometri di distanza dalla zona interessa, a Casa Sanfilippo. Che è presidiata dalle forze dell’ordine, fin dall’alba, ma in aria di festa, con tanto di banchetto che espone le migliori prelibatezze sicule, in grande stile barocco. Ci sono giornalisti, tacchi e cravatte ovunque, che si aggirano senza una precisa meta, discutendo, in attesa del Ministro.

Il documento diffuso alla stampa illustra che l’edificio in questione, nel mese scorso dai non addetti chiamato “teatro” senza ragione, sarebbe stato individuato esaminando il margine meridionale dell’agorà. Il primo frammento di muro, con andamento circolare, ha svelato, successivamente lo scavo, il suo sviluppo fino a 80 metri di lunghezza; formando, nel complesso, una struttura composta da camere trapezoidali. La data assegnata, analizzando i materiali rinvenuti, farebbe pensare al III a. C.

Alle 11:00 si fanno strada i primi colletti: sono volti noti della politica siciliana, che vengono calorosamente salutati con strette di mano e abbracci, e dispensano battute ai taccuini e ai microfoni.

Poco dopo, un’auto con lampeggiante sul tetto percorre lentamente la salita di là dal cancello di Casa Sanfilippo. È il più importante tra i politici nostrani: Alfano. Lo sanno tutti, non è il ministro della cultura. Ma è qui, dice il primo giornalista che lo assalta, “da agrigentino…”, e così via.

Egli risponde riguardo l’importanza di un bene come il teatro, se mai lo fosse; riguardo al ruolo svolto dalla sicurezza, che permette la crescita del turismo; riguardo la Sicilia, che potrebbe trasformarsi in una Florida europea (i giornali scriveranno “California”. In questa crisi di personalità sarebbe un guadagno se la Sicilia rimanesse se stessa).

Ci si siede e viene avviata la conferenza, anticipata da ringraziamenti, arricchita dalle slide. Ciò che si sente ripetere dagli interventi, che sono indistintamente preziosi, variano dal fatto che un bene archeologico è portatore di denaro (tufo uguale oro), e che favorirebbe ai turisti di spalmare in più giorni la residenza in città (un auspicio udito la prima volta circa cento anni fa, e mai realizzato). Il resto può essere sintetizzato in questa semplice frase, la quale tutte le autorità al tavolo ripetono al termine delle dichiarazioni: “Anche se non sappiamo cos’è, sicuramente sarà qualcosa di importante”.

Atto terzo

“Io sono colei che mi si crede”, dice la signora Ponza alla fine del dramma; e dicono quei resti in arenaria, belli sotto il sole, che sembrano luccicare ogni volta che gli archeologi spazzano la polvere che li aveva obliati.

La mattinata si conclude lì dove dovrebbe esserci il teatro, accanto al Museo Archeologico. Percorrendo una breve viuzza in terra battuta, a scavi non ancora inoltrati è possibile assistere a un campo caratterizzato da un lieve pendio, su due terrazzamenti, che corrono verso il Tempio della Concordia.

Dalla probabile cavea, dunque a nord, lo sguardo mira gli alberelli sparsi, fino al mare, che incornicia tutto come poeticamente farebbe un’iride azzurro.

Le autorità vengono invitate a entrare. I giornalisti si insinuano. Entro anche io. Mi aggiro e noto un coccio di terracotta. E per togliermi la soddisfazione, dico a me stesso ciò che di più profondo è stato finora detto: “Anche se non so cos’è, sicuramente sarà qualcosa di importante”.

Gli scavi

Critiche, formalità, cattivi linguaggi istituzionali e pompa magna a parte, non è facile nascondere l’ansia di sapere se, sotto quegli strati di tempo polveroso, è nascosto davvero un teatro. Gli aggiornamenti giungono continuamente da indiscrezioni, voci di corridoio, fantasiose intuizioni, dichiarazioni dei competenti in materia alla stampa.

Personalmente, ci si sente come una gazzosa che è stata agitata da un bimbo capriccioso; e un tappo avvitato ermeticamente è l’unica salvezza per non disperdersi in infinite gocce di nevrotiche domande.

Evitare sopralluoghi presso la zona di interesse, con il pensiero o con i propri piedi, è – durante questi giorni – quasi impossibile. Per chi ama la grecità, ne ha fatto modello filosofico, e ha avuto, dopo la caduta dall’iperuranio (per essere romantici…) la fortuna di trovarsela proprio davanti agli occhi, nella sua magnificenza, respirando qualcosa di antico, sentendosi familiarmente vicino ai grandi pensatori, dà conforto in tanta precarietà del contemporaneo.

Nonostante la fascio-città di Agrigento faccia da cornice con le sue lordure e le sue presenze ai scenari di platonica immaginazione, e, negli anni passati, quando essa patologicamente cresceva, tentò di assassinarli (sarà un vantaggio quando si comprenderà che la città nuova non ha la città greca, ma, con maturità, affermeremo che le due sono distinte, ed estranee), i Templi sono comunque, ogni giorno che la vita li illumina, il senso di una civiltà che in parte ha partorito la nostra (la quale ha perduto le capacità critiche degli antichi giganti), e un pugno allo stomaco di chi ha preferito nascondere la bellezza sotto i sacchi di cemento.

Attraverso l’orrendo reticolato, che divide curiosità e meraviglia, gli archeologi lavorano senza sosta sotto il sole caldo, che brucia anche l’aria; in un ottobre che, comprendendo la vicenda, trattiene i nuvoloni. Ciò che ne viene fuori, finora, ha la forma della speranza: un edificio circolare, così come immagineremmo un teatro, così come lo disegnerebbe chiunque abbia minime affinità con la matita, dalle dimensioni fuori le aspettative, di circa 100 metri di diametro, coerente con la portata di una città quale fu Akràgas. Ma atipica sia nella struttura architettonica che in quella temporale. L’edificio, infatti, avrebbe delle caratteristiche non usuali, e viene fatto risalire a un periodo pittusto tardo rispetto a quello della massima espansione politica della cittadina greca, la quale incontrerà il suo culmine con l’attacco cartaginese, in espansione verso il nord del mediterraneo, nel 403 a.C.

Le domande: si tratta di un edificio ancora sconosciuto agli studiosi?, siamo di fronte a una tipologia architettonica teatrale mai scoperta?, è, se mai lo fosse, un teatro romano?

La natura mi ha fatto sospettoso e continuo -come in passato- a ritenere, insieme ai chiacchieroni del bar, prive di filtri politici, che il teatro, quello greco, sia schiacciato dalla dimora di qualche notabile nostrano. E probabilmente più a nord di qualsiasi area analizzata dal Grifo o dal Marconi.

In tutto ciò, non è chiaro quale sentimento provare: gioia, quella che nelle viuzze di Girgenti la gente lecitamente prova, anche se per l’unica equazione “probabile teatro-uguale-denaro”; o rabbia, poiché la vera “opportunità” di scoprire pezzi di cultura ellenica (oltre al teatro) è ancora -nel 2016!- sotto terra, sotto qualcosa o qualcuno, in un luogo non preciso del territorio cittadino, e non limitatamente circoscritto all’area oggi indagata dalla lente di ingrandimento.

Come finirà? Ecco un pronostico, da prendere non con le pinze. Il teatro non sarà un teatro, o forse sì, ma non quello che speravo. E sul vero teatro calerà un velo di indifferenza, più nero della notte senza luna.

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Dario Orphée La Mendola

Nato ad Agrigento. Maturità scientifica. Laurea magistrale in filosofia. Insegna Estetica ed Etica della Comunicazione presso l'Accademia di Belle Arti di Agrigento e Progettazione delle professionalità presso l'Accademia di Belle Arti di Catania. Critico e curatore indipendente. Collabora con numerose riviste, scrivendo di arte, estetica, filosofia della natura e filosofia dell'agricoltura. Si sta occupando dello studio del sentimento, di gnoseologia dell'arte, estetica della natura e scienze naturali.