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“Mostre in mostra”

Entrare in una sede espositiva ed essere inaspettatamente trasportati indietro nel tempo, in un percorso che attraversa cinquant’anni di storia dell’arte contemporanea esposta in importanti gallerie romane. In questo viaggio nel recente passato riscopro sensazioni ed emozioni vissute da coloro che hanno presenziato alle inaugurazioni, che le hanno recensite o semplicemente osservate. “Mostre in mostra” a Palazzo delle Esposizioni nasce, appunto, con l’intento di dar voce alla pluralità di figure e luoghi che hanno saputo rinnovare, dalla seconda metà del secolo scorso in poi, la vocazione contemporanea della capitale. Un progetto ambizioso, a cura di Daniela Lancioni e promosso da Roma Capitale Assessorato alla Crescita culturale e organizzato dall’Azienda Speciale Palaexpo, poiché si presenta come il primo di una serie di episodi che saranno ripetuti ogni anno all’interno della citata sede offrendo approfondimenti su differenti protagonisti e spazi espositivi.

Addentrandomi in questa prima edizione preferisco seguire la linea cronologica del tempo a ritroso, incontrando in primis le opere di Myriam Laplante (Bangladesh – vive e lavora in Italia dal 1985), evocatrici di Elisir, mostra a cura di Lorenzo Benedetti e Teresa Macrì presentata nel 2004 nei vani della Fondazione VOLUME!, fondata nel 1997 da Francesco Nucci, e realizzata in collaborazione con The Gallery Apart, progetto culturale ideato nel 2003 da Fabrizio Del Signore e Armando Porcari con l’iniziale scopo di supportare e fornire gli strumenti necessari agli artisti per arguti ed impegnativi interventi artistici definiti “OUTSIDE”. Ampolle, tubature e pupazzi sotto formalina c’immergono nel laboratorio della canadese invitandoci a riflettere sulla possibile modificazione genetica del corpo umano da parte di un ipotetico scienziato. L’installazione era accompagnata da una performance in cui Laplante, nei panni di uno scienziato visionario e pazzo, dopo essersi immersa nell’elisir e avervi immerso il suo gemello parassita, nato anche lui da folli sperimentazioni genetiche e inizialmente suo sodale, decide di uccidere questo alter ego impossessandosi dell’elisir miracoloso in grado tenere in vita e controllare gli organismi creati geneticamente. Il perturbante e teatrale set messo appunto dall’artista è una metafora della mistificazione mediale e dei condizionamenti psichici: un “teatrino della follia sperimentale” che indaga i meccanismi di controllo e di coercizione sociale centralizzati che, tutt’oggi, ci dominano.

Dall’“Elogio alla follia” di matrice erasmiana passo a tutt’altra ambientazione trovandomi davanti ad uno scenario quasi lunare costruito da Luciano Fabro (Torino, 1936 – Milano, 2007) nel 1971 per il terzo appuntamento della rassegna “Informazioni sulla presenza italiana” (25 novembre – 18 dicembre 1971) a cura di Achille Bonito Oliva, membro della neo-nata associazione “Incontri Internazionali d’Arte”, e ospitata presso Palazzo Taverna. L’allora trentacinque Fabro, già tra i protagonisti dell’arte povera con all’attivo molteplici mostre e riconoscimenti internazionali, propone “Concetto spaziale d’après Watteau” (1967-71), “Corona di piombo” (1968-71), L’Italia d’oro” e “Alluminio e seta naturale” (1971), lavori precedentemente esposti a Parigi alla “Septieme Biennale de Paris” del 1971. Se nella prima opera il torinese ribalta i concetti tra interno-esterno attraverso l’ostruzione dell’entrata della tenda con un dipinto lasciato a vista, la Corona collocata a terra (differente rispetto a quella esposta nel 1971) – simbolo regale o religioso di alto valore morale – nega la verticalità prediletta dai poteri emanati restituendo agli elementi, ritagliati nelle pesanti materie di ferro e bronzo, un solido appoggio. Mentre un’“Italia” appesa a testa in giù, sinonimo di una rappresentazione affatto autoritaria, e Alluminio e seta naturale (Piede) sono parte di un ciclo di lavori in cui Fabro ha declinato una forma simile in immagini diverse, sempre impiegando la pratica della scultura e l’impiego delle materie prime, ribadendo il suo allontanamento dall’arte concettuale.

In continuità con il pensiero anti-concettuale dell’italiano poco più in là rivive “Jan Vercruysse. Tombeaux (Stanza)”, mostra presentata alla Galleria Pieroni nel 1990 (attualmente conosciuta con il nome di Zerynthia – RAM radioartemobile) e oggi riproposta grazie alla collaborazione della Fondazione Jan Vercruysse (Ostenta, Belgio 1948 – Bruges, Belgio 2018). Sostenitore della natura spirituale dell’arte e fermo avversario dell’idea secondo cui un’opera sia uno strumento per comunicare un messaggio, il belga presenta i suoi “Tombeaux”, parola che in francese contiene un doppio significato: ‘tomba’ (luogo del silenzio e del non-essere) e nome di una forma metrica della poesia medievale in versetti (scritta in omaggio a un defunto). Dei lavori allora presentati ne sono stati qui riallestiti sono alcuni: due declinazioni di porte o paratie in ferro distanziate dal muro con una serie di fasce metalliche alternate lungo i cinque piani verticali in sequenze orizzontali diverse; un’opera simile (dello stesso anno) a sei elementi in legno dipinto, bassi e tutti uguali, disposti in una sequenza ordinata, parallela a una delle pareti ma con sette elementi; e, infine, l’esiguo ambiente intitolato “Tombeaux”, appositamente realizzato nel 1988 per l’entrata della biblioteca e guest-house che Mario Pieroni e Dora Stiefelmeier avevano aperto al numero 144 di Piazza Vittorio. In quest’ultimo vano due specchi sono frontalmente contrapposti rimandano a immagini moltiplicate e infinite di ciò che entra nello spazio tra di loro, mentre al centro un elemento dorato richiama la sagoma di un tavolo: concretizzazione della sua idea di arte intesa come “luogo altro” da quello reale in cui è possibile realizzare forme tridimensionali che possono appartenere solo a tale mondo.

Al di fuori di tali riflessioni s’innesta “La costellazione del Leone” di Carlo Maria Mariani (Roma, 1931) ospitata presso la Galleria Gian Enzo Sperone nel 1981. Mero riferimento al segno zodiacale dell’artista, l’esposizione fu incentrata sul grande dipinto eseguito nel suo studio romano. Esplicito, per struttura compositiva e soggetto, è il rimando al “Parnaso” di Anton Raphael Mengs (1761), eseguito per il Cardinale Albani nonché tema già impiegato da Raffaello nella Stanza della Signatura in Vaticano.  L’ironico quadro ritrae, mettendo letteralmente a nudo, i protagonisti della scena artistica locale dell’epoca – da Achille Bonito Oliva a Sandro Chia, da Gian Enzo Sperone a Cy Tombly, da Giulio Paolini a Mario Merz – riproposti in uno scenario idilliaco e in panni inconsueti, compreso lo stesso Mariani che compare seduto al centro della composizione, vestito con il mantello verde dell’Accademia di San Luca (accademia di cui Canova e Thorvaldsen erano stati presidenti). Accanto al lavoro un testo dattiloscritto riecheggia i toni dello stile letterario dell’inizio dell’Ottocento tratteggiando il gusto e gli ideali stilistici di ciascun personaggio raffigurato senza mai nominarne nessuno. Nell’incipit del testo si legge: “Grande intrapresa per la gloria e la felicità della patria. Tragedie moderne ovvero aneddoti raccolti da ciò che vedesi in Roma nel 1980 dopo il ritorno alla pittura e all’antico”. Purtroppo, per mancanza di documentazione, non è stato possibile ricostruire esattamente tutta la mostra. Sicuramente, però, sappiamo che “La costellazione del Leone” era accompagnata dai dipinti Ganimede del 1981 ed Eros e Psiche del 1979, trilogia che, accompagnata da altre opere, fu riproposta nella serie di esposizioni organizzate nelle diverse sedi di Sperone (Torino, Roma e New York).

Di stampo minimalista ma imperniata sull’impiego di materiali poveri è la personale di Giulio Paolini esposta nel 1964 all’interno di una vetrina espositiva considerata all’epoca, insieme a La Tartaruga, tra le più prestigiose per l’arte contemporanea a Roma: La Salita. Nata nel 1957 e ubicata lungo la salita che notoriamente porta al Pincio, la galleria di Gian Tomaso Liverani, gallerista dotato di grande intuito e coraggio, propose fin da subito artisti ed attitudini che successivamente si affermeranno: da Franco Angeli a Mario Schifano, da Richard Serra a Maurizio Mochetti, da Vettor Pisani a Giulio Paolini solo per citarne alcuni. Quest’ultimo, a soli 24 anni, effettuò la sua prima mostra entrando a pieno titolo nel campo dell’arte grazie alla sua innovativa linea stilistica fondata sulla volontà di proporre modelli con mezzi che non abbiano la pretesa di essere significanti, identità confermata anche nelle fotografie che documentano l’inaugurazione. Infatti, se parte delle superfici in compensato erano appese a muro, come solitamente accadeva, altre erano a terra o appoggiate le une sulle altre, generando nel pubblico un senso di attesa per la loro apparente e momentanea collocazione. Sensazione evocata anche dai ganci e fili lasciati a vista o dall’uso di materiali lasciati grezzi. Un allestimento sui generis che diverrà esemplare, invitando a ulteriori stravolgimenti nel corso dei successivi decenni. Inoltre, Paolini esibì gli strumenti del fare arte, metodo già impiegato in opere precedenti, come il foglio da disegno che s’intravede sul verso di un’opera o semplici tavole di compensato o masonite. Nella silenziosa atmosfera ricreata a Palazzo delle Esposizioni, grazie al contributo dello stesso artista che ha prontamente sostituito i lavori ora non disponibili, Paolini ha inserito al centro della sala tre Disegni del 1964, parte di una serie costituita da un cartoncino ripiegato in quattro, ciascuno contenete un diverso oggetto ovvero un foglio con la firma dell’autore, tre tubetti di colore, una spatola sporca di colore, una matita, un foglio accartocciato, una pagina a stampa con la rappresentazione degli enti geometrici.

Giulio Paolini, Senza titolo, 1964, tavole di compensato, due elementi, cm 200 x 150, cm 102 x 102. Collezione privata, Milano © Roberto Marossi

Proseguendo il percorso m’imbatto nell’ultima proposta espositiva incentrata su una delle poche donne artiste che emersero in quel periodo in ambito nostrano: Titina Maselli a La Tartaruga (1955). La storica location fu aperta a due passi da Piazza di Spagna nel 1954 dal conosciutissimo fotografo Plinio De Martiis e Maria Antonietta Pirandello, nipote del noto scrittore siciliano. Senza schierarsi nella controversia tra astrattisti e figurativi, i due galleristi decisero di accogliere entrambi in galleria affiancandoli, a volte, su una stessa parete. Intorno al 1960 iniziarono a seguire la nutrita nuova generazione di artisti che venne alla ribalta – Cy Twombly, Achille Perilli, Giulio Turcato e Franz Kline – a cui si aggiunsero Jannis Kounellis, Mario Schifano, Giosetta Fioroni, Cesare Tacchi, Sergio Lombardo, Renato Mambor, Mario Ceroli, Tano Festa, Umberto Bignardi, Franco Angeli, Gianfranco Baruchello, Pino Pascali, Eliseo Mattiacci, Enrico Castellani, Piero Manzoni, Ettore Innocente, Paolo Icaro, Fabio Mauri, Gherard Richter. La mostra su Titina Maselli evidenzia, appunto, lo spirito aperto di De Martiis verso l’avanguardia. Con Maselli egli decise di allestire le ultime opere da lei prodotte durante il soggiorno a New York – dove si era trasferita dal 1952 – ed in cui risuona il fervore futurista d’inizio Novecento attraverso pennellate corpose e dai toni scuri, e dove la metropoli d’oltreoceano è raccontata in affascinanti notturni nero-verdastri. Unica memoria della personale è un piccolo pieghevole stampato per l’occasione in cui sono indicate quattordici tele in mostra, alcune con evidenti richiami nei titoli al panorama d’oltreoceano: Montacarichi a Queensborough Bridge, Piccione a Wall Street, Grattacieli e Cortile a New York. Per tale ragione è qui proposta una selezione di lavori che l’artista realizzò in tra il 1952 e il 1955, quando l’incontro con il panorama americano, molti anni prima sia dell’invasione della Pop Art e sia del ritorno alla pittura, l’aiutò a precisare alcune caratteristiche e particolarità del suo lavoro, a metà tra un pericoloso avvicinamento all’astrazione formale – come scriveva Renzo Vespignani sul pieghevole della mostra – e un cupo racconto dell’esistenza vissuta.

Mostre evocate senza la pretesa di un riallestimento sovrapponibile a quelli originario bensì ricostruito attraverso strumenti filologici – dai documenti alle testimonianze, dai repertori fotografi ad altre memorie – per mancanze spesso dovute sia da cause involontarie come lavori distrutti (dalla storia o dagli artisti stessi), irreperibili o non perfettamente conservati sia da costi eccessivi. “Mostre in mostra” si presenta come un’oculata rassegna che invita l’osservatore ad abbandonarsi alla bellezza dell’arte e a meditare su profonde riflessioni emerse nel corso degli ultimi cinquant’anni di storia dell’arte contemporanea. 

MOSTRE IN MOSTRA. Roma contemporanea dagli anni Cinquanta ai Duemila/1.

Titina Maselli, Giulio Paolini, Luciano Fabro, Carlo Maria Mariani, Jan Vercruysse, Myriam Laplante

a cura di Daniela Lancioni

dal 30 maggio al 28 luglio 2019

Palazzo delle Esposizioni

Via Nazionale, 194 – 00184 – Roma

orario: domenica, martedì, mercoledì e giovedì h 10:00 – 20:00; venerdì e sabato h 10:00 – 22:30; lunedì chiuso.

ingresso a pagamento

tel: +39 06 39967500

email: info.pde@palaexpo.it

sito: www.palazzoesposizioni.it

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