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Le “scritture desemantizzate” di Tomaso Binga

Marco Giovenale

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Nell’intenzione di documentare esperienze non recenti di quella che in inglese viene recentemente definita “asemic writing”, si avvia qui una serie di interviste ad autori verbovisivi che hanno operato anche nel senso – appunto – della scrittura asemantica. Il primo incontro è con Bianca Menna, alias Tomaso Binga.

Se non sbaglio i suoi primi lavori intitolati “scritture desemantizzate” risalgono al 1972-74, come visibile nelle immagini che mi ha gentilmente messo a disposizione non molto tempo fa, e che qui si riproducono.  È quello l’arco di tempo effettivo o c’è stato un periodo precedente in cui lei personalmente lavorava in quella direzione, o dialogava con artisti che di scrittura asemantica si occupavano?
I miei lavori di stampo cubista e futurista hanno preceduto di poco le mie ricerche verbovisive. Sicuramente determinanti sono state le frequentazioni con gli artisti fiorentini (Miccini, Pignotti, Ori, La Rocca) e i napoletani (Stelio M. Martini, Luca, Alfano) che in quel momento si stavano confrontando con il cambiamento linguistico visuale determinato dai nuovi mezzi di comunicazione.
Ricordo i furiosi e scardinanti dibattiti negli incontri alla libreria Guida di Napoli dove un giovanissimo Achille Bonito Oliva fu tra i primi a proporsi come poeta verbo-visivo (posizione subito rinnegata).

Quanti/quali materiali ha prodotto, nei due o tre anni dell’arco 1972-74, in questo senso? Sarebbe interessantissima, preziosa, una documentazione fotografica. Ricorda delle mostre o incontri specificamente dedicati a questo tipo di opere, ai quali lei abbia partecipato (o assistito)?
Le mie opere  di quegli anni iniziano con i “Polistirolo”, i “Ritratti analogici , i “Paesaggi” e la ricopiatura di testi critici e  giornalistici con scritture sempre più  dilatate quasi in dissolvenza, con “sigle” di non facile lettura, con supporti difficili da adoperare ma già con – in corpore – il seme della desemantizzazione.
Il mio più lucido ricordo di quegli anni è la mostra “La Scrittura”  presso la Galleria Seconda Scala, a Roma (1976), a cura di Filiberto Menna, Lamberto Pignotti e Renato Barilli, che codificava, con un ben costruito catalogo, questa nuova corrente artistica e i suoi assertori. “La forma della scrittura”, Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna (1977), “Raccolta Italiana di Nuova Scrittura” a cura di Ugo Carrega e Vittorio Fagone, Mercato del Sale, Milano (1977), “Materializzazione del Linguaggio” a cura di Mirella Bentivoglio, Biennale di Venezia (1978), “Oggi poesia domani”, a cura di Adriano Spatola e Giovanni Fontana, Biblioteca Comunale, Fiuggi (1979), per citarne solo alcune: sono state le grandi mostre a cui ho partecipato, che mi hanno dato la possibilità di conoscere o rinsaldare amicizie con artisti e critici che lavoravano nell’ambito della ricerca visuale e sonora sia italiana che straniera.

Dalla serie della Scrittura desemantizzata (1974)

Si trattava di un clima diffuso, tra gli artisti verbovisivi, che conduceva a tali esperienze? Oppure a lei sembra che solo pochi autori e artisti fossero così orientati?
Io direi clima molto diffuso, per la molteplicità e varietà dello spostamento o azzeramento linguistico, che andava dalla dilatazione alla cancellazione totale, dalla bruciatura all’intreccio, dalla spezzettatura alla velatura, da codici nascosti a sillabe alla rovescia, da vocali mancanti a dittonghi manomessi .

C’erano contatti in questo senso con artisti verbovisivi e sperimentatori non italiani? Ricorda alcuni nomi in particolare?
Ricordo con piacere: Paula Claire, Julian Blaine, Bartolomé Ferrando, Endre Szkarosi, Clemente Padìn, Fernando Aguiar, Richard Martell e tanti altri, tutti artisti incontrati personalmente in mostre collettive e festival di poesia sonora sia in Italia che all’estero, con i quali ancora oggi ci scambiamo messaggi e inviti.

Il lavoro asemantico era allora confinato al segno grafico oppure si spostava anche nei territori della vocalizzazione/lallazione? Si trattava di produrre anche materiali testuali quindi alfabetici (però di significato linguistico non riconoscibile) oppure, come detto, ci si muoveva esclusivamente nell’area del segno grafico?
Tutto questo riscatto asemantico di ricerche a ragione può essere situato come discendente dalla grande area della poesia concreta (1953), così definita perché spostava l’attenzione dal significato del testo ai suoi elementi compositivi: le parole, le sillabe, i fonemi con tutte le diversificazioni combinatorie di stampa, sia per ciò che riguardava i caratteri che le dimensioni. Per cui anche la parola pronunciata, avendo subito lo stesso processo di smontaggio  e di desemantizzazione della parola scritta, acquista una propria autonomia e autorevolezza  perché esaltata dalla voce con sonorità, timbri e ampiezze diversi.

Rispetto al lavoro di una artista come Irma Blank, e a quanto ne scriveva Gillo Dorfles, qual era la sua posizione, la sua poetica? Si sentiva in sintonia con altre/altri sodali in questo senso?
Ho incontrato per la prima volta Irma Blank nella sua casa/studio nel periodo di trascrizione della Divina Commedia con la sua precisa e raffinata scrittura desemantizzata dove venivano rispettate solo la punteggiatura e le rientranze dei versi. Ne rimasi subito affascinata anche perché nello stesso periodo io stavo ricopiando testi critici e giornalistici alla stessa maniera ma con qualche trasgressione in più e un  gesto più ampio che mi permetteva di dare al testo trascritto altri significati.
“Bisogna essere ripetitivi, ripetitivi, per essere subito riconosciuti!” mi disse con voce perentoria.
Non ebbi il coraggio di contradirla e le sorrisi annuendo!

Le sue ricerche artistiche successive sono proseguite anche su questo versante, o hanno preso strade completamente diverse?
La mia ricerca si è sviluppata, sempre con grande coerenza, nell’ambito della scrittura verbovisiva e della poesia sonoro-performativa. Dopo le prime esperienze di scrittura desemantizzata (1971-74), ho proposto sagome del mio corpo come lettere alfabetiche in Scrittura Vivente (1976) avvalendomi anche del mezzo fotografico. Nel ’78 sono approdata alla Biennale di Venezia con una nuova esperienza scritturale: il Dattilocodice. Nell’85 ho stipulato un armistizio tra Scrittura e Pittura con il Biographic, che ho presentato alla XI Quadriennale di Roma. Armistizio stroncato nel ’91, con l’inizio della guerra del golfo, dalla forza irrompente della scrittura poetico/performativa di Riflessioni a puntate, evento epistolare-sonoro di denuncia sociale, durato un anno.  A seguire “Picta Scripta” (1995), “Manoscritti ritrovati” (1997), “Alfabeto proverbiale” (2000), “Cubetti sonori” 2010,  “Grazie Font!” (2015) e l’ultima provocazione poetico/performativa, “Utero di Sirena” (2016).

Spesso si parla di scrittura asemantica come generatrice di un vero e proprio nuovo movimento artistico, cosciente di essere tale soprattutto dalla fine degli anni ’90 tra Stati Uniti, Canada e Australia (i nomi che spesso si fanno sono quelli di Jim Leftwich e Tim Gaze). A lei sembra che al contrario in Italia già lo stesso percorso delle ricerche verbovisive sia interrotto o fortemente ridotto? (A prescindere dal discorso asemantico, intendo).
Io non credo! Infatti ne fanno testo le innumerevoli mostre, archivi, e musei dedicati al VerboVisivo, ai libri d’artista e soprattutto alla mail-art. Solo in Italia  nel 2000 si son aperti  due importanti Musei dedicati al VerboVisivo e alle nuove forme di scrittura: il Museo della Carale, di Adriano Accattino, a Ivrea, e il MACMa, Museo Arte Contemporanea, di Luigi Gabrieli, al Palazzo Marchesale del Tufo, Matino, a cura di Salvatore Luperto.

Nota biografica
Bianca Menna, alias Tomaso Binga, nata a Salerno, vive e lavora a Roma.
In arte ha assunto un nome maschile per contestare con ironia e spiazzamento i privilegi del mondo degli uomini. Si occupa dal ’70 di scrittura verbovisiva. È stata docente presso l’Accademia di Belle Arti di Frosinone.
Ha partecipato a innumerevoli mostre, rassegne e festival in Italia e all’estero. Tra le sue pubblicazioni: Indovina cos’È, Hetea, Alatri 1987; Sono stanca a più non posso, Rossi & Spera, Roma 1987; Rimerotiche, Gradiva, Roma 1992; Vorrei essere un Vigile urbano, Umberto Sala Editore, Pescara 1995; Autoritratto a scatto, Le Impronte degli Uccelli, Roma 2000; Valore Vaginale, Tracce, Pescara 2009, con introduzione di Gillo Dorfles.
Attiva organizzatrice, dirige dal 1974 il centro culturale “Lavatoio Contumaciale”, a Roma, e dal 1992 partecipa, in qualità di vicepresidente, alla gestione della Fondazione Filiberto Menna, Salerno.

Tags: Bianca Menna intervista Italia materiali verbovisivi poesia concreta poesia visiva scrittura asemantica scrittura asemica Tomaso Binga

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