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Minchia che arte!

Elevare l’indecisione fino a conferirle dignità politica.
Porla in equilibrio con il potere.
(G. Clément, Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, pag. 61)

 

La mia professoressa di storia dell’arte, una donnina zitella e isterica, sosteneva che se non avessimo saputo interpretare l’arte contemporanea, avremmo fatto la fine delle lumache (i babbaluci, in siciliano), le quali, catturate da qualche buontempone dopo le prime piogge autunnali, terminano la loro esistenza sucate con gusto.

Adesso che la prof si trova dove tutti vanno dopo essersi annoiati di stare al mondo, sarebbe bello dirle (e forse sto per farlo) che tale rischio, il rischio di divenire una lumaca che perisce con una fellatio, non c’è affatto. Perché? Due cose m’hanno convinto; due cose che convinceranno anche te.

Cominciamo dal microcosmo, cioè parlando di una piccola mostricina tenutasi in un altrettanto piccolo paesino di provincia, di cui non è dignitoso scrivere i dettagli informativi, ma basta e avanza raccontare la vicenda (che è di interesse antropologico); e approdiamo al macrocosmo, dunque all’evento del secolo, alla bella Manifesta a Palermo, che fa parlare di sé tanto quanto la Ferragni (cioè, chi?) o Tommaso Paradiso (…anche questo, boh? Sono i primi post che vedo aprendo quel pornosocial di Instagram).

Vai, andiamo. In questo anonimo paesino fondato dai romani, occupato nel ‘600 da ricconi spagnoli, e distrutto negli anni cinquanta dalla speculazione edilizia (detto così, potrebbe essere uno dei tanti paesini siciliani), presso la galleria di un medico o un avvocato in pensione (non ricordo… vabbè, è uguale), un artista scandinavo bruttissimo, dal volto tumefatto, tondo come un’arancina (per i palermitani), come un arancino (per i catanesi), ha inscenato questa preziosa performance: assistere ai suoi due cani in accoppiamento. La curatrice, una mezza nuda, dai capelli un po’ rosa e un po’ verdi, che aspettava un dildone in mano, ha spiegato gemendo che l’opera, sottile sottile (mah…), stava soltanto nell’attenzione prestata dall’artista nel silente momento trascendentale e nella futura produzione dei cuccioli da parte della cagna, ognuno dei quali sarà venduto su Amazon al prezzo di 500mila euro.

Non avendoci capito nulla, passiamo a Manifesta, dicendo subito: ma che bella, porcaccia la miseria, che bella che è stata Manifesta! Peccato sia agli sgoccioli. Tra un po’ finirà e Palermo sembrerà vuota, vuota come una vedova, come molte opere in tante gallerie, vuota come i minuti in cui attendi qualcuno e questo maleducato non arriva mai. E forse tutto ritornerà come prima: i palazzi storici a fare la muffa, l’economia cittadina che vacilla, la depressione urbana diffusa, l’invasione turistica nelle belle giornate.

In una lunga indagine patafisica condotta dal sottoscritto, nessuno dei veri palermitani, parlandone ai bar di Ballarò, ricorda che ci sia stata occasione più divertente di Manifesta; l’occasione in cui la borghesia annoiata, che era occupata su comodi divani a sorseggiare tè alla naftalina almeno dai tempi dell’Art Nouveau (escluse per le frizzanti campagne elettorali), è finalmente scesa in strada a esporre il proprio gusto: il gusto di una capitale della cultura, eh; ovvero un gusto probabilmente nazionale. (Domanda sciasciana: è o no Palermo specchio dell’Italia?)

Mi chiedo come faremo il prossimo anno senza quel famoso tizio che fornicava con le piante, in quell’installazione che in una manciata di minuti ha spiegato quanto peso noi umani diamo a coloro che, con i loro “escrementi” clorofilliani, ci permettono di campare; o, chessò, senza quella luminaria che ha distrutto alla velocità di un selfie una storica tradizione siciliana, pubblicizzando la più pronunciata parola, il più importante giocattolo, il più funzionale sostantivo che in sette lettere disegna la forma delle teste dei maschi italiani: la minchia, in alcune colorite espressioni anche elegantemente anticipata dalle formule «testa di…», «faccia di…», «gran funcia di…».

Cara prof, osservando l’arte oggi, il tuo timore è infondato. Tuttavia, nel caso delle teste, delle facce, delle gran funcie di… di cui sopra, il fatto che preferiscano fare la fine delle lumache, approfonditamente sucate, abbiamo capito che è quasi un obbligo morale.

Concludendo. Restando in tema di minchie, pare davvero che l’arte sia diventata un cesso, su cui pisciamo con lo sguardo. E badate bene: guai, guai a dire che il pubblico, qui, non conti; guai. Il pubblico non dice nulla semplicemente perché ce l’ha moscio come il resto del Sistema. E non gli è rimasto altro che trasformare l’arte in una escort.

 

(La foto è tratta dal web. Se fosse possibile, saremmo lieti di citare l’autore.)

 

L’opera in Via Alloro a Palermo è del giovane artista Fabrizio Cicero, e fa parte delle installazioni dell’evento Manifesta 12, la biennale itinerante europea in corso nel capoluogo siciliano

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Dario Orphée La Mendola

Nato ad Agrigento. Maturità scientifica. Laurea magistrale in filosofia. Insegna Estetica ed Etica della Comunicazione presso l'Accademia di Belle Arti di Agrigento e Progettazione delle professionalità presso l'Accademia di Belle Arti di Catania. Critico e curatore indipendente. Collabora con numerose riviste, scrivendo di arte, estetica, filosofia della natura e filosofia dell'agricoltura. Si sta occupando dello studio del sentimento, di gnoseologia dell'arte, estetica della natura e scienze naturali.