home Collettiva, Recensioni TENSIONI STRUTTURALI #3

TENSIONI STRUTTURALI #3

Ultimo capitolo di una trilogia di mostre, proposte dalla Galleria Eduardo Secci, quello più atteso perchè la serialità crea aspettativa e incute risposte: Tensioni Strutturali curata, come le precedenti, da Angel Moya Garcia dopo aver indagato sul ruolo centrale dell’individuo nella costruzione dello spazio percepito e sulle possibilità della materia come elemento di rappresentazione, ora si dedica all’entropia. Se la prima mostra aveva un forte sapore umanista per la sua lettura antropocentrica e la seconda analizza la Materia con spirito Barocco, Tensioni Strutturali #3 è puro Ottocento, non solo per il tema trattato (entropia è un principio introdotto nel 1865 da Robert Clausius nella seconda legge della termodinamica) ma sopratutto per l’ambientazione caotica cui si ritrovano gli artisti di oggi, come all’epoca.

Lo sguardo al passato, indispensabile per l’Arte e per la Critica, in un’ottica più recente porta istintivamente al fervore degli anni ’70, quando gli spazi venivano concepiti come strumento integrante dell’opera d’arte e Marc Augè iniziava ad essere notato sulla scena internazionale. Dai Dodici Cavalli di Kounellis allo sviluppo della Land Art, la conquista dello spazio (letteralmente) da parte dell’artista e dell’uomo, meravigliosamente in sincrono, ha ripristinato quel fascino e desiderio di novità, di sorpresa, quasi un diktat nel XIX secolo, un bisogno divenuto ermetico e pragmatico nel Novecento a causa delle due grandi guerre, nonostante fosse stata già innescata l’opera di Duchamp. Questo piccolo excursus temporale vuole sopratutto introdurre il processo entropico nell’arte, probabilmente più efficace avvalendosi di un esempio classico: introducendo una goccia d’inchiostro in un bicchiere d’acqua, poco dopo si otterrà una miscela perfettamente uniforme ma assolutamente caotica, in quanto non sarà possibile, se non con un forte dispendio di energia, separare i due elementi. Se si considera la rivoluzione di Duchamp, fresca del traguardo centenario, come la goccia d’inchiostro nel bicchiere, ecco che risulterà immediato comprendere come, lentamente ma inesorabilmente, si è giunti ad uno stato attuale prettamente disordinato. Quello che resta è il piacere.

È morto il mito della novità, della sorpresa pungente, così perseguito nel passato, resta comunque il diletto di un accumulo di esperienze e coscienza critica portata al citazionismo colto, effetto collaterale dell’accessibilità e tempestività dei mezzi di divulgazione degni e colpevoli potenziatori di una memoria collettiva e individuale.

Le interpretazioni dei quattro artisti coinvolti nella mostra in corso da Eduardo Secci, tutte site specific, vanno lette nel loro insieme, una prova d’orchestra, pur privilegiando un’autonomia propria, un’individualià velatamente romantica degli autori che hanno scelto (o forse accettato) lo spazio che più rispecchiava le proprie esigenze.

Daniel Canogar, sulla scia di Brian Eno, preme particolarmente sull’entertainment per dare corpo ad un pastiche di ingredienti (utilizzando internet e una formula algoritmica che “traduce” visivamente i dati) di cui inevitabilmente si perdono i sapori originali, a favore della purezza estetica del suono-luce. Levi Van Veluw, particolarmente interessante, è la sola ad offrire con la sua struttura allocata in una stanza semibuia una decisa tensione emotiva in un curioso richiamo all’allotropia del carbonio, ora diamante, ora grafite, contrasto percepibile nella sublimazione sentimentale tra conforto e angoscia percepita dal fruitore. Baptiste Debonbourg, di respiro europeo, recupera quella scuola artistica anglosassone innamorata del prodotto industriale, forzando la sua opera alla forma elittica necessaria al concept, comunque affascinante, della rivoluzione rappresentata da codesto disegno nella storia umana, una volta legata all’orbita planetaria: in questo caso, dunque, molto più pertinente di quanto non appaia è il dialogo con i resti di affresco del soffitto, uno “sfondato” del XX secolo. L’opera di Zimoun, infine, ha l’onore e l’onere di essere percepita fin dall’ingresso: l’excalation del rumore ripercuote (letteramente) la serialità, la pluralità, e la forma modulare della sua installazione evoca uno spettro calcografico, marcato nel titolo cifrato e macchinoso. Non propriamente Pop, piuttosto vicino alle ricerche di Manzoni con l’utilizzo di materiali a buon mercato.

Le quattro proposte sono separate, non dialogano necessariamente tra di loro, come un film ad episodi, legate idelamente dalla serialità e dalla tricotomia vista-suono-memoria: il risultato è un appropriato caos ordinato, dove ogni installazione disturba disciplinatamente l’altra, riflettendo la fruizione delle mostre d’arte odierne come esperienza vissuta, lontane da un carattere oggettuale e reversibile.

TENSIONI STRUTTURALI #3

Daniel Canogar, Baptiste Debombourg, Levi Van Veluw, Zimoun

Fino al 22.12.2017

Orari d’apertura/ Lunedì – Sabato 10.00-13.30 _14.30-19.00

Eduardo Secci/ Piazza Carlo Goldoni, 2 – Firenze

About The Author